Login

MET



Controlli voce Chiudi controlli
: Volume:  1 Velocità  1 Tono:  1
Redazione di Met
La festa di San Giovanni a Firenze. L'omelia di Betori
L'arcivescovo sul Forteto: "Alla radice di questa vicenda drammatica sta il rifiuto della famiglia. In quel deviato contesto non ci si è vergognati di coinvolgere la memoria di un prete nostro, che nessuno deve avere l’ardire di sottrarci, deformandone l’immagine". Il riferimento a don Milani
Firenze, Cattedrale di Santa Maria del Fiore, 24 giugno 2015, Natività di San Giovanni Battista
[Is 49,1-6; Sal 138; At 13,22-26; Lc 1,57-66.80]

Omelia del Cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze

"La Chiesa celebra oggi la natività di san Giovanni Battista e la scelta liturgica dei testi biblici mira a porne in luce il significato. Lo fa anzitutto con la pagina del vangelo di Luca, che narra l’avvenimento della nascita del figlio di Zaccaria ed Elisabetta e l’imposizione del nome al fanciullo. Esso non dovrà esprimere la continuità della stirpe, come vorrebbero i presenti e come sarebbe normale in una società fortemente attenta a garantire la propria tradizione, ma, come suggerisce la madre e impone il padre, sarà espressione di come l’esistenza di questo bambino sia giunta inaspettata nella vita di due anziani, ritenuti ormai sterili, e si prospetti quindi come un dono di Dio: «Giovanni è il suo nome» (Lc 1,63). Giovanni, Johannes, Iô?anan, cioè “Il Signore ha fatto grazia”. Nella sua nascita Dio manifesta «la sua grande misericordia» (Lc 1,57) verso l’umanità, rivelando il proprio volto, quel volto che il Santo Padre invita a riscoprire nell’anno giubilare che si aprirà nel prossimo dicembre.
Già nel nome il nostro patrono richiama dunque una verità troppo spesso dimenticata o addirittura contrastata nella cultura di questi tempi: la nostra vita è un dono, noi siamo un dono! La nostra pretesa di autonomia, sradicata da ogni riferimento, è una contraddizione in sé, troppo spesso volutamente equivocata, quasi che ciascuno si sia dato la vita da sé. Come pure contraddice la nostra natura più vera la pretesa di sostituire la logica del dono, che sta alla base del nostro essere, con quella del desiderio, del guadagno, della pretesa e del diritto. Vale questo – e ne vediamo le catastrofiche conseguenze – nel modo con cui si orientano le forze che dominano la vita economica e sociale; vale – e le conseguenze sono non meno esiziali – per come non pochi si pongono di fronte alla generazione della vita, pretesa come un diritto e, per questo, disposti perfino a staccarla dal riconoscimento delle sue radici paterne e materne. Se un figlio non è più accolto come un dono, ma preteso come un diritto, vince l’idea che lo si possa ottenere a qualunque costo, anche fuori dal contesto di un amore che lo generi, comprandone al mercato i fattori costituenti, o strappandolo – a un prezzo anch’esso legato al mercato – dal seno che lo ha generato.
Dove si proietti una vita pensata e riconosciuta come un dono, qual è quella di Giovanni, lo mostrano le altre letture bibliche, che ne delineano, sia pur sobriamente, la missione futura. La sua sarà un vita al servizio di Dio, in cui egli si presenta con l’atteggiamento umile dello schiavo, anzi ancor più in basso, in quanto «non… degno di slacciare i sandali» (At 13,25) di colui, Gesù, di cui è venuto a preparare la venuta.
Questo proiettare la propria vita su quella di Cristo, costituisce anch’esso un messaggio non da poco per noi. Comprendere la propria vita non come un progetto chiuso in sé, ma che trae significato dall’aprirsi agli altri e nel mettersi al loro servizio, contrasta le spinte individualiste ed egoiste che serpeggiano nella nostra società e che vorrebbero ostacolare gli slanci di apertura e di accoglienza che rendono invece ancora umane le nostre comunità. Accade in questi giorni, in cui siamo invitati ad aprire il cuore ai profughi che, sfuggendo guerre e calamità, bussano alla porta dell’Europa. Piace constare che è ancora viva la tradizionale accoglienza della nostra gente, cui danno forma tanti soggetti della società civile e del volontariato e per cui operano molte istituzioni. Va però rinnovato l’appello alle istituzioni sovranazionali perché si assumano i loro doveri di cura delle persone umane e di salvaguardia della giustizia e della pace tra i popoli.
La missione del Battista viene ulteriormente illuminata dalla pagina del libro di Isaia. Giovanni, come Gesù – cui pure il testo profetico viene accostato –, si colloca in un progetto divino che lo segna dal concepimento e ne determina l’identità: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome» (Is 49,1). Egli è strumento di Dio in un contesto descritto come una lotta, in cui c’è bisogno di armi per penetrare nel corpo di un misterioso nemico: «Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra» (Is 49,2). La vicenda storica di Giovanni mostrerà che tale confronto conflittuale si svolgerà sul terreno della proclamazione della verità, in cui egli dovrà mostrare al popolo la sua condizione di peccato, chiamandolo alla conversione, e in cui lo dovrà sollecitare a superare la soglia di una religiosità chiusa per riconoscere la venuta del Messia. Una missione di annuncio della verità sull’uomo e su Dio, che al Battista costerà la vita.
Su questo fronte della verità si sta consumando un confronto difficile per la testimonianza dei credenti nel nostro tempo. Per alcuni nostri fratelli ciò accade nelle forme cruente della persecuzione: dobbiamo tenerli vivi nei nostri cuori, sostenendoli con la preghiera e richiamando chi ha responsabilità politiche nel mondo perché ovunque sia riconosciuta e difesa la libertà religiosa. Per noi si tratta di affrontare un confronto culturale che non esclude anche forme di emarginazione sociale. È un confronto a cui non possiamo sottrarci; non, come da molte parti ci viene rimproverato, per volontà di egemonia, ma, al contrario, per servizio all’uomo, alla sua identità integrale, per contribuire alla ricostruzione della sua dimensione autenticamente umana in un mondo in cui la dignità della persona e il bene comune sono spesso disattesi e in cui c’è anche chi va profilando come inevitabile la scomparsa della nostra specie, per passare a un’era trans-umana o post-umana.
A questo confronto si incammina la Chiesa italiana che, a novembre, si è convocata a Firenze, per la sua massima assise di comunione e di dialogo, sotto la guida di Papa Francesco, che attendiamo con gioia tra noi. Mi si permetta di invitare la comunità ecclesiale e la città tutta a prepararsi in modo adeguato all’incontro con il Santo Padre, con la preparazione delle menti e dei cuori, ma anche con il ristabilimento della dignità e della sicurezza dei luoghi, attraverso un’efficace azione di contrasto al degrado in cui tutti dobbiamo sentirci impegnati. Firenze, la nostra città, non può essere trattata come uno spazio in cui ciascuno ha il diritto di trasgredire, di danneggiare e di esprimersi in modo indegno di un essere umano.
In questa missione di annuncio e di difesa della verità sull’uomo vengono coinvolti diversi profili della concezione della persona e dei legami sociali. Il fatto che la frontiera su cui da ultimo si consumò, con il martirio, il servizio di Giovanni alla verità sia stata l’identità propria della famiglia, assume un particolare rilievo in questi nostri giorni, in cui da più parti viene messo in questione l’istituto familiare, quale unione di un uomo e una donna nel vincolo del matrimonio per la generazione e la cura dei figli, prima cellula costitutiva della società. Costituisce un pericolo per l’equilibrio e la tenuta della società tutta fare confusione su questo fronte, magari per voler offrire sostegno giuridico ad altre tipologie di convivenza, che – senza negare loro rispetto e diritto d’esistenza – altro però sono, e solo come altro possono quindi trovare riconoscimento.
Ne dobbiamo essere consapevoli soprattutto noi, sul cui territorio si è consumato un dramma che ha travolto l’esistenza di tante persone, cui va rinnovata la vicinanza e la richiesta di perdono per il ritardo con cui ci si è resi conto della loro tragedia. Non va infatti dimenticato che alla radice di questa vicenda drammatica sta il rifiuto della famiglia, così come la tradizione ce l’ha affidata, un rifiuto che è sfociato nell’utopia deleteria di ricostruire la socialità su basi diverse. Contestata la famiglia naturale, si è aperto lo spazio al sopruso e alla sofferenza. Quale pastore della Chiesa fiorentina, devo poi anche lamentare come, in quel deviato contesto, non ci si sia vergognati di coinvolgere la memoria di un prete nostro, che nessuno deve avere l’ardire di sottrarci, deformandone l’immagine.
Non vogliamo isolare questa frontiera del matrimonio e della famiglia dal territorio più vasto della integralità dell’esperienza umana. La difesa della verità coinvolge molti orizzonti. Unisce l’ecologia umana a quella del creato, come ha ricordato Papa Francesco con la sua recente enciclica; chiede una visione antropologica organica e spazia dalla salvaguardia della vita e della sua dignità al riconoscimento del diritto dell’uomo a costruire il proprio progetto di vita anche con un’abitazione dignitosa e un lavoro sicuro, dalla cura della salute all’accoglienza del migrante e del rifugiato, dal rifiuto della guerra e della violenza come strumento di regolazione dei rapporti tra i popoli e gli individui al primato della persona nella sfera economica che va sottratta all’impero del denaro e del consumo, dal rispetto dell’identità sessuale nella sua unità psichica e corporea al farsi carico delle molteplici povertà che affliggono i fratelli. Di questa visione unitaria dell’esistenza la nostra città porta il segno fin nel suo patrimonio culturale, architettonico e artistico e ci chiama a essere eredi coerenti e capaci ancora di dare frutti.
A questa visione costitutiva di un popolo richiamano le stessa parole del profeta, che caratterizzano la missione del Servo come un ricondurre e riportare a unità il popolo di Dio allora segnato dalla frantumazione, ma anche come il farsi «luce delle nazioni» (Is 49,6) in una prospettiva di comunione che abbraccia l’umanità tutta. Il progetto di Dio è la riconciliazione degli uomini e un futuro di pace, che si edifica nella comunione con lui, nella verità su noi stessi, nella fraternità universale.
San Giovanni Battista, nostro patrono, ci illumini e ci sostenga.
Giuseppe card. Betori

24/06/2015 18.29
Redazione di Met


 
 


Met -Vai al contenuto