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Diocesi di Firenze
Il Card. Betori a Faenza per la festa patronale. La sua omelia
"Spesso nella vita si insinua la tristezza di una festa impossibile, a cui conseguono paura e frustrazione. Ne siamo testimoni in questi giorni di fronte al dramma della guerra che insanguina l’Ucraina, in cui l’aspirazione alla pace deve potersi nutrire di ragioni di speranza, quella che come credenti sappiamo poter venire solo da Dio che converte i cuori. Ma anche nel nostro quotidiano, sociale e personale"
Sabato mattina 7 maggio il Card. Giuseppe Betori, in occasione della festa della patrona, Beata Maria Vergine delle Grazie, ha pronunciato la seguente omelia nella cattedrale di Faenza (letture da At 1,12-14; Gdt 13,23-25; Gal 4,4-7; Gv 2,1-11)

"Siamo qui riuniti per cantare le lodi della Beata Vergine Maria sotto il bel titolo di 'Vergine delle Grazie'. È sempre sorprendente vedere come la devozione popolare è capace di profondità, di interiorità e di slancio missionario. Come ha scritto Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, riprendendo un’espressione del Documento dell’episcopato latino-americano a Puebla, «si può dire che “con la pietà popolare il popolo evangelizza continuamente sé stesso”» (n. 122). Sono quindi lieto di condividere con il vostro vescovo, con la vostra città e con la vostra diocesi, questo omaggio gioioso alla Madre di Dio venerata come 'Vergine delle Grazie'.
Nell’espressione della pietà popolare ci viene proposta la contemplazione del mistero della salvezza. Quando si parla di grazie, siamo portati a pensare ai benefici, ai doni che la Madonna dispensa ai suoi fedeli; ma la parola “grazia” evoca qualcosa di molto più grande. La Grazia, possiamo dire, è Dio stesso, in quanto egli è essenzialmente dono, gratuità, amore. La Madonna merita la nostra venerazione, prima ancora che per le grazie che ci elargisce, per la Grazia che ci ha comunicato una volta per sempre, donandoci la fonte della Grazia, Cristo Gesù, Salvatore nostro. L’odierna liturgia, con i testi che sono stati proclamati, è un inno al mistero della Grazia: l’uomo è salvato, è redento, perché, senza alcun suo merito, è amato da Dio.
Nella prima lettura, Maria è presenza discreta, ma significativa. Una presenza quasi nascosta, accanto agli Undici, insieme «ad alcune donne […] e ai fratelli di [Gesù]» (At 1,14); una presenza ordinaria che nasconde e rivela una presenza straordinaria, quella del suo Figlio. Lo ha ribadito la lettera di San Paolo ai Galati: «Quando venne la pienezza del tempo» (Gal 4,4), quando, cioè, il tempo si è riempito di eternità e quindi ha raggiunto la sua completezza; potremmo dire, quando il tempo da ordinario è diventato straordinario, noi abbiamo ricevuto «l’adozione a figli» (Gal 4,5) per cui possiamo gridare: «Abbà, Padre!» (Gal 4,6). La nostra storia è cambiata, la nostra vita è diventata straordinaria, da quando Maria ha detto il suo “sì” definitivo. Da questo “sì”, da quando il Figlio di Dio è «nato da donna» (Gal 4,4), è cominciata la nostra nuova vita di figli di Dio.
Soffermiamo ora la nostra riflessione sul brano evangelico. Per l’evangelista Giovanni le nozze di Cana sono un episodio basilare della vicenda di Gesù, «l’inizio dei segni compiuti da Gesù» (Gv 2,11). Sono anzitutto un simbolo drammatico della condizione umana: festa continuamente minacciata. Il vino, espressione di festa e di benedizione divina, viene a mancare e la festa viene turbata, ferita. Spesso nella vita si insinua la tristezza di una festa impossibile, a cui conseguono paura e frustrazione. Ne siamo testimoni in questi giorni di fronte al dramma della guerra che insanguina l’Ucraina, in cui l’aspirazione alla pace deve potersi nutrire di ragioni di speranza, quella che come credenti sappiamo poter venire solo da Dio che converte i cuori. Ma anche nel nostro quotidiano, sociale e personale, sentiamo il bisogno di aprire orizzonti di salvezza: per le nostre famiglie, così fragili nel loro compito di dare ed educare la vita; per il mondo della produzione e del lavoro, segnato troppe volte da attentati alla dignità della persona e alla stessa vita; per le nostre società così poco capaci di progettare il futuro, chiuse nel consumo del presente e dimentiche di coloro che restano ai margini. Anche per la nostra vita quotidiana abbiamo bisogno di speranza, quella che può venire solo dalla luce che sgorga dalla contemplazione della città celeste.
Non meno significativo nel racconto delle nozze di Cana è il contesto cronologico in cui Giovanni colloca l’evento. Siamo nella settimana inaugurale del ministero di Gesù e il fatto accade alla sua conclusione, tre giorni dopo l’incontro di Gesù con Natanaele, l’ultimo tra quei primi discepoli che si mettono al seguito di Gesù a partire dalla testimonianza offerta su di lui dal Battista all’inizio di questa settimana. Dopo la settimana della creazione, il mondo vive una settimana di nuova creazione, operata da Cristo redentore dell’uomo. Le nozze di Cana, nel settimo giorno della settimana inaugurale del ministero di Gesù, sono segno dell’eterno sabato di Dio, la pienezza del Regno, il giorno delle nozze eterne di Cristo con la Chiesa. In questa simbologia numerica non è meno importante che questo giorno venga designato come «il terzo giorno» (Gv 2,1), chiaro richiamo alla Pasqua di Cristo. L’acqua, mutata in vino abbondante, è il simbolo della gioia messianica, della festa, del banchetto che il Messia risorto ci imbandisce. Gesù porta una gioia nuova perché lui è il vero Sposo divino che unisce a sé l’umanità umiliata e sconfitta, e ne fa la sua Sposa inebriata di gioia e di amore. La gioia, l’umanità non potrà mai darsela da sola, la può ricevere solo dalla sua sorgente, Dio.
Il vino che, come dice il maestro di tavola, è molto migliore del precedente, allude all’alleanza nuova, stabilita da Cristo, che va oltre quella antica. Ma l’acqua mutata in vino è anche il segno della nostra povera umanità mortale trasformata nel vino prezioso della divinità di Cristo. Le nozze di Cana sono il segno dell’amore finale verso cui cammina la storia umana: le nozze eterne di Dio con la sua creatura, che così partecipa all’infinita beatitudine del suo Sposo.
Questo destino di gloria è possibile perché Dio ha sposato per sempre la nostra umanità nel seno verginale di Maria, dove Dio e l’uomo sono diventati una cosa sola. A Cana l’acqua è diventata vino prezioso e straordinario. Nell’Eucaristia abbiamo lo stesso segno, il vino che si trasforma nel Sangue prezioso di Cristo morto e risorto per noi. In questa avventura che trasforma l’ordinario in straordinario, il tempo in eternità, lo snodo decisivo è rappresentato da Maria, la Madre di Gesù, che a Nazaret accoglie il Figlio di Dio nella sua carne, a Cana intercede presso il Figlio e nella Chiesa dei primi tempi prega con i discepoli per il dono dello Spirito. In tutti i contesti la preghiera di Maria si colloca nell’adempimento della volontà divina. C’è una parola autorevole e forte della Madre di Dio nel racconto di Cana che dobbiamo far nostra, la parole che Maria dice ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). L’obbedienza al Mistero è il segreto della gioia e della salvezza.
Questa è la grazia che oggi dobbiamo chiedere alla Vergine delle Grazie, uno sguardo che vada al di là del quotidiano, che ci faccia scoprire come con Dio, con Gesù tutto può prendere un sapore nuovo, come nell’obbedienza alla sua parola ci è dato il segreto per raggiungere la gioia a cui tutti aspiriamo. In questo cammino Maria ci accompagna: prega con noi, come nel cenacolo; intercede per noi in forza del legame unico con il Figlio a cui ha dato carne umana; come a Cana ci indica la strada dell’efficacia della preghiera, fare cioè la volontà di Gesù".

09/05/2022 10.58
Diocesi di Firenze


 
 


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