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LENSI (FI): LA PROVINCIA DI FIRENZE E’ FORSE A FAVORE DELL’OCCUPAZIONE DEL TIBET?

Presentata domanda d’attualità

“Due milioni di tibetani morti, settemila monasteri distrutti, duecentomila tibetani sparpagliati in decine di campi profughi fuori dal Tibet. Potrebbe essere questa la fotografia reale del Tibet dopo quasi 50 anni di occupazione militare di Pechino. Invece, alla mostra fotografica “La Terra Magica”, organizzata dall’Associazione Italia-Cina, è “andato in onda” un altro Tibet, grazie al quale la tragedia di un popolo che sta scomparendo è stata nascosta ai visitatori della mostra che si è svolta a Palazzo Strozzi e che ha chiuso, per fortuna, i battenti proprio ieri. Le fotografie esposte annunciavano un Tibet sinesizzato e sereno; si potevano osservare bucoliche immagini di un Tibet apparentemente felice, ma lontano dalla realtà delle torture, delle deportazioni e delle distruzioni dell’eredità culturale e spirituale buddista tibetana. Il problema però è che all’inaugurazione hanno partecipato numerosi esponenti istituzionali degli enti locali fiorentini, tra cui anche l’assessore della Provincia di Firenze alle relazioni internazionali e al turismo, Giovanna Cornaro Folonari. Per questa ragione ho depositato un’interrogazione urgente per sapere se la presenza istituzionale all’inaugurazione della mostra fotografica dell’Assessore alle relazioni internazionali della Provincia di Firenze è da considerarsi come un chiaro ed esplicito orientamento politico contro chi da decenni sostiene la libertà del Tibet occupato e se l’amministrazione provinciale ritenga prioritario favorire iniziative culturali tese a stabilire migliori rapporti commerciali con la Repubblica Popolare di Cina a scapito della lotta nonviolenta del popolo tibetano e delle campagne culturali, spirituali e di libertà del Dalai Lama contro l’oppressione e la violenza.”

In allegato: resoconto del consigliere Lensi a seguito di un viaggio in Tibet nel 1998

Lamaland 1998.

Cerco di prendere subito contatto e confidenza con l'altopiano tibetano, già nei primissimi chilometri dei tanti da fare, in questo lungo viaggio verso Lhasa. Tremilaottocento metri di altitudine, debito d'ossigeno, sole implacabile, aria frizzante e rarefatta ed un cielo azzurro, intenso, quasi ingombrante. Nella jeep che mi porta alla prima locanda tibetana prenotata, per forza di cose, a Kathmandu, mi vengono in mente i volti e le voci dei tanti amici e compagni di lotta di questi ultimi quattro anni di campagne per la libertà del Tibet. Amici conosciuti e rivisti tante volte a Budapest, Bruxelles, Ginevra, Bonn e ai quali da quattro anni proponiamo il Satyagraha nonviolento mondiale come unica soluzione pacifica e veramente politica per la questione tibetana. Ma penso anche, con una certa inquietudine, agli ultimi messaggi distensivi tra il Kashag tibetano e Pechino, alla via imboccata dal Dalai Lama verso colloqui segreti con il governo comunista di Zu. Alla fine, quindi, di una lotta nonviolenta durata quarant'anni per l'accettazione compromissoria dell'attuale status quo. Ma quale? Il viaggio è lunghissimo, stressante, tocchiamo numerose piccole città, a volte sono solo primitivi villaggi dove manca quasi tutto. Ci fermiamo a Lhatse, dove è posto il bivio per raggiungere in dieci giorni di fuoristrada il monte sacro dei tibetani, il Kailash. Dal villaggio si parte per visitare il monastero di Sakya. Poi, ripresa la strada maestra, è la volta di Shigatse, Gyantse e alla fine lei, la bella, la capitale, la città dei Dalai Lama, Lhasa.

Ma Lhasa non è più! Al suo posto i cinesi hanno costruito Lamaland, un parco giochi per turisti alla ricerca del Mistico o per facoltosi cinesi, tanti, che potranno poi testimoniare come, tutto sommato, i tibetani siano trattati con riguardo, tolleranza ed anche devozione dalle autorità della Regione autonoma del Tibet (TAR): un fantastico esempio del peggior Minculpop. A Lamaland, come in un qualsiasi parco-giochi del mondo, si paga per tutto. Mi occorrono gli yuan equivalenti ad una cena in ristorante per visitare il Potala o i monasteri di Drepung e Sera. Voglio comprare una kata, oppure un rosario tibetano, o una bandiera della preghiera? Le trovo al mercatino del Barkhor, attorno al più sacro monastero di Lhasa e forse di tutto il Tibet, il Jokhang, ma sono made in Hong Kong o Kathmandu! Modica spesa e souvenir esotico assicurato. Ma Lamaland è anche due città in una. Quella cinese, ben illuminata e pulita, con i suoi sfavillanti negozietti-emporio quasi occidentali, gli alberghi di lusso ed i ristorantini tipici. La parte tibetana invece è esattamente l'opposto di quella cinese: mal tenuta, buia. È la Riserva, dove l'occidentale riscopre il medioevo teocratico dei grandi lama. O almeno così crede, dopo aver annusato l'odore di burro di yak di cui è intrisa ferocemente l'aria. I giovani tibetani, vestiti con i rimasugli di qualche Rivoluzione Culturale, conoscono la propria lingua, reintrodotta a livello di insegnamento scolastico tre anni fa dalle autorità della TAR per, così penso, meglio preparare la Riserva, ed il cinese. I loro coetanei cinesi in più parlano l'inglese, si vestono con jeans e scarpette da ginnastica, ascoltano gli U2. Ma le etnie ormai si confondono sempre di più. I mezzo sangue sono la maggioranza nella comunità tibetana. Un paio di generazioni ancora e Pechino avrà ottenuto il tibetano perfetto. La lenta e spassosa burocrazia dell'Immigration Office di Lhasa mi impedisce il viaggio al monte Kailash, ma riesco, nonostante l'avvicinarsi della scadenza del visto, ad effettuare qualche ulteriore escursione nei dintorni. Il lavoro di Pechino è formidabile, perfetto. Ovunque nei dintorni di Lhasa è Lamaland. Biglietti da pagare, monaci silenti da fotografare, paesaggi da ricordare, sotto il sole dei quattro mila e l'intenso azzurro del cielo del tetto del mondo. Una organizzazione capillare che non lascia spazio ad avventure o a soluzioni di viaggio alternative. Solo e sempre Lamaland.

L'ultimo giorno, mi inerpico su per le scale del Potala e inizio il lento, lunghissimo, percorso-pellegrinaggio tra le stanze del palazzo dei Dalai Lama. Il percorso deve essere rigidamente effettuato in senso orario, come vuole la tradizione, e ci si inoltra in pertugi strettissimi e scale ripidissime. Tibetani e turisti occidentali lo percorrono correttamente mentre dalla parte opposta giungono flussi di turisti cinesi che entrano dall'uscita, per marcare la loro distanza culturale dalle superstizioni religiose dei lama, creando degli ingorghi etnico-religiosi da brivido. Il Potala, così come Lhasa, è ormai cinese e le regole le scrivono loro. A Lamaland dopo le fatiche della giornata ci si può dedicare alla spedizione di esotiche email, a rischiare qualche yuan nei casinò dei tanti alberghi internazionali e a girare per le strade illuminate della parte cinese tra bordelli, ristorantini tipici e pub. Una città pronta ad afferrare i gusti di qualsiasi turismo, che arriva con sempre maggiore intensità anche dall'interno della Cina. Le previsioni della vigilia si stanno materializzando. Lhasa è proprio ciò che mi aspettavo: una brutta, falsa, città cinese, dove i tibetani sono stati trasformati in indiani della Riserva. Pensieri gettati al vento come le migliaia di bandiere di preghiera. E cosa racconterò di diverso da ciò che già sanno della loro terra, agli amici della comunità tibetana di Katmandhhu che mi avevano aiutato alla partenza? Che Lhasa non c'è più e che Sua Santità forse vuole chiudere quarant'anni di lotta nonviolenta per non perdere l'ultima delle battaglie: quella della reincarnazione del XV Dalai Lama. L'ultimo tassello mancante al trionfo finale di Pechino, la chiusura del problema tibetano e la conseguente glorificazione turistico-internazionale di Lamaland. Ma anche queste sono riflessioni fugaci, deboli, ispirate più dalla rabbia per ciò che vedo che dalla ragione. Il pensiero corre al milione e mezzo di tibetani uccisi e torturati. Penso al 10 marzo 1959. Dove è nascosto tutto ciò? Nella diaspora tibetana a Dharamsala o Zurigo? A Lamaland non vi è traccia, ovviamente, di niente. Forse i turisti più attenti hanno visto la libertà del Tibet negli occhi di un bimbo aggrappato alle spalle della propria madre su per le scale del Potala o forse hanno rivissuto il 10 marzo nel cielo, unico, indimenticabile, di Lhasa la mattina presto. Forse. Ma le emozioni non sono finite. Lamaland mi offre l'ultima scarica di adrenalina turistica: il volo della Southern China Airways per Kathmandu. Un'ora e mezzo da sogno tra l'Everest e il Lhotse, sull'Himalaya, affinché al turista dubbioso scompaiano anche gli ultimi interrogativi sulle condizioni di vita degli indiani della Riserva. Viva Lamaland. E dopo un mese, con un notevole senso di liberazione, lascio il Tibet.

20/07/2006 14.33
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