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Diritto di accesso e omissione di atti di ufficio - Rubrica di Normativa
"Silenzio rigetto" di un'istanza di accesso e conseguenze penali
L’art. 25, comma quarto, della L. 241/1990 s.m.i. stabilisce che, decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta di accesso, questa si intende respinta.

Si tratta del cosiddetto diniego tacito alla richiesta di accesso, altrimenti detto silenzio rigetto o silenzio rifiuto.

L’art. 328 del codice penale, al secondo comma, prevede il reato di omissione di atti di ufficio, stabilendo che “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032,00”.

Si pone la questione se, nell’ipotesi del silenzio rigetto relativo ad un’istanza di accesso, si possa configurare, a carico del responsabile del procedimento rimasto inerte, il reato di cui all’art. 328 c.p..

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale non si applicherebbe alla fattispecie in esame l’art. 328 c.p., in quanto il concretizzarsi del silenzio rigetto a fronte di un’istanza di accesso avrebbe natura provvedimentale di segno negativo, per cui alla fattispecie si applicherebbe la causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p. (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere), costituendo un diritto per l’amministrazione il potere di emanare un provvedimento tacito di diniego.

Il predetto orientamento non è condiviso dalla giurisprudenza prevalente.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, infatti, il formarsi del silenzio rigetto alla scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta di accesso costituisce un inadempimento integrante la condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie incriminatrice, ossia l’omissione di atti di ufficio.

Infatti già dal 2013 la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che, ai fini dell’integrazione del reato di omissione di atti di ufficio, il silenzio rigetto a fronte di una richiesta di accesso deve considerarsi inadempimento, e quindi condotta omissiva integrante il predetto reato (Cassazione penale Sez. VI sentenza n. 45629 del 13/11/2013; Cassazione penale Sez. VI sentenza n. 7348 del 24/11/2009; Cassazione penale Sez. IV sentenza n. 5691 del 6/04/2000).

Successivamente la Corte di Cassazione ha statuito quanto segue: “Deve ribadirsi la pacifica linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, che ha ormai da tempo stabilito il principio secondo cui, in tema di delitto di omissione di atti di ufficio, il formarsi del silenzio rifiuto alla scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta di accesso costituisce un inadempimento integrante la condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie incriminatrice (…..).
La fattispecie di cui all’art. 328 c.p., comma 2, incrimina non tanto l’omissione dell’atto richiesto, quanto la mancata indicazione delle ragioni del ritardo. L’omissione dell’ atto, in sostanza, non comporta ex se la punibilità dell’agente, poiché questa scatta soltanto se il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio), oltre a non avere compiuto l’atto, non risponde per esporre le ragioni del ritardo: viene punita, in tal modo, non già la mancata adozione dell’atto, che potrebbe rientrare nel potere discrezionale della pubblica amministrazione, bensì l’inerzia del funzionario, la quale finisce per rendere poco trasparente l’attività amministrativa. In tal senso, la stessa formulazione della norma, che utilizza la congiunzione “e”, delinea una equiparazione ex lege dell’omessa risposta che illustra le ragioni del ritardo alla mancata adozione dell’atto richiesto” (Cassazione Penale Sez. VI, sentenza n. 42610 del 6/10/2015).

Un orientamento dottrinale minoritario ritiene invece necessario, per la consumazione del reato di omissione di atti di ufficio, che, successivamente alla formazione del silenzio rigetto, l’interessato invii un ulteriore atto di diffida ad adempiere all’Amministrazione rimasta inerte.

Pertanto, mentre è indubbio che per la configurabilità del reato di omissione di atti d’ufficio è necessaria sia la mancata risposta nel termine previsto sia la mancata esposizione delle ragioni del ritardo, in dottrina è controverso se il reato si consumi al momento della scadenza dei 30 giorni previsti dall’art. 25, comma quarto, della L. 241/1990 e della mancata esposizione delle ragioni del ritardo, o, invece, successivamente, dopo una diffida ad adempiere rivolta a sollecitare il provvedimento o l’esposizione delle ragioni del ritardo.

Questa seconda tesi non appare condivisibile, perché appesantisce il procedimento, va aldilà del disposto normativo e confligge con l’orientamento della giurisprudenza prevalente.

Ne deriva conclusivamente che, per scongiurare l’applicabilità del secondo comma dell’art. 328 del codice penale, è necessario esaminare tempestivamente le richieste di accesso, rispondendo alle stesse entro il termine di 30 giorni dalla data di ricevimento e conseguente tempestiva protocollazione.



a cura di Lina Cardona



Fonti: rivista giuridica Salvis Iuribus, articolo di Silvia Causa; rivista giuridica studio Cataldi, Il diritto quotidiano, articolo di Gilda Summaria; Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 7348 del 24/11/2009; Cassazione penale, Sez. IV, sentenza n. 5691 del 6/04/2000; Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 45629 del 13/11/2013; Cassazione Penale, Sez. VI, sentenza n. 42610 del 6/10/2015.

12/01/2022 13.06
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