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Arcidiocesi di Firenze
Anniversario della morte di don Milani. L'omelia del vescovo Gambelli
Pronunciata a Barbiana mercoledì 26 maggio 2024
Ringrazio e saluto il presidente della Fondazione don Milani per avermi invitato a presiedere questa Eucaristia nel giorno in cui facciamo memoria della morte di don Lorenzo Milani. Saluto cordialmente il parroco di Vicchio, i confratelli preti e tutti voi che partecipate a questa celebrazione.

Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, ci ricorda che “fa molto bene fare memoria del bene”. Siamo qui riuniti per questo motivo: fare memoria del bene che don Lorenzo ha compiuto nella sua vita terrena. Il nostro sguardo, tuttavia, non è rivolto solo al passato; piuttosto, il ricordo ci spinge a vivere intensamente il presente con passione e entusiasmo in questo nostro tempo di cambiamento d’epoca. Le letture che abbiamo ascoltato ci illuminano in questo nostro cammino.
La prima lettura tratta dal Secondo libro dei Re ci presenta un episodio che avvenne a Gerusalemme al tempo del re Giosia verso la fine del VII secolo a. C. Questo re santo e giusto aveva iniziato una riforma religiosa che prevedeva anche dei lavori di restauro del Tempio di Gerusalemme. Nel corso di questi lavori viene ritrovato un rotolo con le parole del libro della legge. Gli studiosi della Bibbia ritengono che si tratti della parte centrale del libro del Deuteronomio, i capitoli 12-26, che erano stati persi, o più probabilmente dimenticati dalle autorità religiose e dal popolo. Si tratta di una serie di norme che Mosè aveva trasmesso al popolo, proprio mentre stava per entrare nella terra promessa, alla fine dei quarant’anni trascorsi nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto. Lo scopo principale di questa legge è quella di aiutare il popolo a vivere nella terra con la stessa mentalità del deserto, a ricevere tutto come un dono, che si rinnova ogni giorno proprio come la manna durante il cammino dell’esodo.
Il capitolo 20 del Deuteronomio è un testo di una sorprendente attualità perché parlando dell’eventualità di entrare in guerra, introduce tutta una serie di condizioni da assolvere precedentemente che rendono praticamente quasi impossibile farlo. Cito un passaggio di questo capitolo: “Quando andrai in guerra contro i tuoi nemici […]. Gli scribi diranno al popolo: "C'è qualcuno che abbia costruito una casa nuova e non l'abbia ancora inaugurata? Vada, torni a casa, perché non muoia in battaglia e un altro inauguri la casa. C'è qualcuno che abbia piantato una vigna e non ne abbia ancora goduto il primo frutto? Vada, torni a casa, perché non muoia in battaglia e un altro ne goda il primo frutto. C'è qualcuno che si sia fidanzato con una donna e non l'abbia ancora sposata? Vada, torni a casa, perché non muoia in battaglia e un altro la sposi". Gli scribi aggiungeranno al popolo: "C'è qualcuno che abbia paura e a cui venga meno il coraggio? Vada, torni a casa, perché il coraggio dei suoi fratelli non venga a mancare come il suo". Mi sembra che l’articolo 11 della nostra Costituzione italiana faccia eco a questo capitolo 20 del Deuteronomio: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Chissà? Forse anche noi, come il popolo d’Israele abbiamo perso questo testo? Ci sarà qualcuno capace di ritrovarlo, di suscitare in noi questo sentimento di ripudio della guerra e del male? Ognuno si chieda: “E se cominciassi a farlo io, oggi, proprio là dove vivo?”.
Il Signore Gesù nel testo del Vangelo, parlando dei falsi profeti, ci dice che vengono a noi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Il vero profeta si presenta all’opposto come qualcuno che è duro all’esterno, ma tenero interiormente e solo chi ha il coraggio di lasciarsi inquietare nelle false paci della coscienza, può portare frutto nella sua vita. Il profeta è colui cha parla a nome di Dio davanti al popolo, si trova in mezzo a questi due fuochi e ciò spiega perché dovendo vivere questa duplice fedeltà, egli conosca molto spesso la sofferenza, l’incomprensione e la solitudine.
C’è un testo molto bello di Madeleine Delbrel che parla di questa duplice fedeltà facendo ricorso a un’immagine, quella del cane lupo.
“Quando un gregge è piccolo e le pecore sono docili e vi sono pochi lupi o non ve ne sono affatto, il pastore può far a meno del cane. Quando il gregge è grande e le pecore sono vagabonde, non una sola ma a branchi, e i lupi sono numerosi, bisogna che il pastore abbia un cane e magari più di uno. I cani somigliano sempre ai lupi, e spesso i migliori cani da pastore sono proprio i cani lupi. È quel che hanno conservato del lupo che permette loro di fare per il pastore ciò che lui stesso non farebbe: fiutano, corrono, si arrampicano alla maniera degli animali che sono. Ma è quel che il pastore ha comunicato loro di se stesso che fa di essi dei cani da pastore: amare le pecore come un pastore o come un lupo, non è affatto la stessa cosa. È condividendo un po’ la vita del pastore che il cane rimane un cane e non diventa un lupo. Non vive più nei boschi, ma accanto alla casa del pastore. Si nutre del cibo dell’uomo. Ode la voce dell’uomo. È l’uomo che lo chiama senza tregua a sé, è l’uomo che lo manda incessantemente alle frontiere del gregge. I suoi due estremi sono la testa del gregge e i piedi del pastore. Le pecore non possono né ritrovarsi le une le altre, né difendersi. Ma non diventeranno mai lupi. I cani possono ritrovare le pecore e difenderle, ma c’è sempre un lupo nascosto dentro di loro; possono tornare ad esserlo. Ai piedi di San Domenico, in San Pietro a Roma, c’è un cane simbolo della sua missione. L’ovile della Chiesa, in certi periodi, ha bisogno di cani da pastore. In queste ore, il Signore li ha sempre fatti sorgere. Se sono fedeli, li si riconoscerà sempre da due cose: le spine e i morsi sulle zampe, il segno del collare intorno al collo. Come tutti i cani pastori, porteranno la contraddizione di essere al tempo stesso gli amici dell’uomo e gli antichi abitatori della giungla. Come tutti i cani pastori, un giorno o l'altro riceveranno la «correzione» del pastore... perché non possono capire tutto ciò che egli dice. Come tutti i cani da pastore, saranno disprezzati, ai margini del bosco, un giorno, una sera, a causa del collare dell’uomo”.
Mi colpisce sempre nella vita di don Lorenzo la sua fedeltà alla Chiesa, soprattutto per l’assoluta necessità del sacramento della riconciliazione. Il Signore ci aiuti a vivere come lui questo grande amore per la Chiesa attraverso la quale riceviamo la grazia di Cristo, perché innestati in Lui portiamo frutti di vita eterna e collaboriamo alla realizzazione del suo regno di giustizia e di pace.


26/06/2024 22.32
Arcidiocesi di Firenze