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Diocesi di Firenze
Omelia dell'Arcivescovo Gambelli per il 58° anniversario dell'alluvione del 1966
"Improvvisamente sperimentiamo come la realtà ci superi da ogni parte"
Il testo dell'omelia proclamata lunedì 4 novembre 2024 nella Basilica di Santa Croce dall'Arcivescovo di Firenze, mons. Gherardo Gambelli nella Celebrazione in memoria delle vittime dell’alluvione di Firenze (4 novembre 1966) nel cinquantottesimo anniversario.

Celebrazione Eucaristica in memoria delle vittime dell’alluvione di Firenze
(4 novembre 1966) nel cinquantottesimo anniversario.
XXXI sett. Tempo Ordinario, Ciclo B, anno II
(Fil 2,1-4 – Sal 130 – Lc 14,12-14)

OMELIA

L’alluvione che travolse la nostra città di Firenze cinquantotto anni fa, e per le cui vittime celebriamo oggi questa Eucarestia, appartiene a quella categoria di eventi davanti ai quali improvvisamente sperimentiamo come la realtà ci superi da ogni parte. Anche le più recenti alluvioni, che nell’ultimo anno hanno colpito duramente molte zone del nostro paese e quella terribile di Valencia dei giorni scorsi, ci ricordano che, se da un lato è una responsabilità fondamentale incrementare la nostra capacità di prevenzione e previsione, allo stesso tempo tali calamità rimangono qualcosa di cui non possiamo ultimamente disporre: la realtà si rivela sempre più grande delle nostre forze o idee. Da qui il senso profondo dell’invito che Papa Francesco costantemente ci rivolge ad una cura e comprensione adeguate di questa nostra casa comune che è il creato.
Proprio la memoria dell’alluvione che nel 1966 colpì con particolare forza questo quartiere e questa Basilica di Santa Croce, ci potrebbe far ritenere ingenue le parole appena proclamate nella lettura del salmo: «Resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia». Il clima di guerra in cui è immerso il mondo, così come le quotidiane fatiche e incertezze che tante donne e uomini si trovano a fronteggiare, sembrano suggerirci che questa «serenità» di cui parla il salmista sia, in realtà, un raro privilegio per pochi se non un vero e proprio miraggio. Tuttavia, proprio uno sguardo realista agli eventi drammatici che ci superano da ogni parte, rivela l’inconsistenza di quelle differenze e diffidenze su cui tanto convintamente riteniamo di poter costruire e edificare le nostre relazioni come la nostra convivenza sociale. Vi sono momenti, come fu quello dell’alluvione, in cui, spogliati di molto se non di tutto, torniamo a vivere l’esperienza comune di essere fondamentalmente bisognosi.
Sperimentiamo un’inaspettata umiltà innanzi alla realtà, sorprendendoci bisognosi non semplicemente di “cose” ma di un orizzonte di relazioni come di significato nel quale l’esistenza possa esser sperimentata come realmente vivibile e non dominata dalla sola incertezza. Proprio l’immagine del bimbo che riposa in braccio alla madre, così familiare a ciascuno di noi, rivela allora la sua autentica profondità. Il bambino è sereno perché vive nell’abbraccio della madre. È dal di dentro di quell’abbraccio che la realtà gli si dischiude positivamente come luogo di crescita e maturazione: laddove un neonato fosse privato delle cure della mamma ecco che la medesima realtà si rivelerebbe estranea e ostile.
Possiamo dire che solo laddove l’uomo sperimenta nella sua esistenza una compagnia all’altezza della vita, con i suoi drammi e inquietudini, con i mali di cui l’uomo sempre nuovamente si dimostra capace, solo allora la realtà diventa uno spazio propriamente umano. L’umiltà del bambino è quella di essere tutto bisognoso del rapporto con la madre. Anche san Paolo scrivendo ai Filippesi identifica come cruciale questa «umiltà» o, riprendendo ancor più letteralmente il testo, questo «sentire da poveri» (tape???f??s???). Solo chi si sente tutto bisognoso, suggerisce l’Apostolo, può riconoscere chi è in grado di parlare e intercettare questo suo essere radicalmente bisognoso. Solo in questa umiltà, in grado di stupirsi ogni volta della grandezza dei propri fratelli e sorelle, del loro valore, considerandoli «superiori a sé», è possibile sperimentare la «consolazione in Cristo». Dove questa consolazione non è da comprendersi in termini puramente astratti – quasi fosse un discorso consolatorio – essa è qualcosa di estremamente tangibile: si manifesta, infatti, come un «un medesimo sentire», «con la stessa carità» si tratta, per l’Apostolo, di poter avere in noi «gli stessi sentimenti di Cristo» (Fil 2,5).
Davanti alla complessità della realtà, con le sue gioie e i suoi inevitabili dolori, l’unica consolazione all’altezza della vita è quella che coincide con il poter accogliere le circostanze, abitare la storia e vivere le relazioni in questa unità profonda con il sentire del Signore Gesù. Egli che ricorda al capo dei Farisei – e così a noi – chi sono gli invitati ideali in ogni banchetto della storia: «poveri, storpi, zoppi, ciechi». Coloro dai quali non ci si può aspettare nessun contraccambio e che tuttavia portano, per ridonarla anche a noi, la consapevolezza profonda del loro bisogno.
È proprio questa nostra povertà che Cristo abbraccia – come la madre col suo bambino – e la fa sua: è perché Dio ha voluto «sentire» il nostro essere bisognosi come suo che noi possiamo desiderare di «sentire» le cose come Lui, di partecipare al suo sguardo colmo di tenerezza e pazienza, come ai suoi gesti di carità e amore. Ricordando in questa santa messa coloro per i quali l’alluvione fu la circostanza drammatica del compiersi dei loro cammini umani, mentre preghiamo anche per le tante vittime dell'alluvione di Valencia e per tutti coloro che in questo momento stanno soffrendo per questa calamità, chiediamo anche la grazia di non dover sempre attendere qualche irreparabile evento per ricordarci che siamo tutti egualmente bisognosi, che non sono le cose o i ruoli a consolare di speranza la vita, quanto piuttosto il poter crescere in quell’amare che è l’amare di Gesù stesso. Sarebbe bello, per chiudere con una immagine, se quel moto di solidarietà che investì la nostra città nell’imminenza dell’alluvione, se quel concorso di popolo da tante parti di Italia per portare assistenza e aiuto, se quello spirito di condivisione e carità fraterna e che animò il popolo fiorentino cinquantotto anni fa così cosciente del suo bisogno materiale e morale, sarebbe bello se tutto questo potesse essere da noi fiorentini non solo ricordato ma perseguito e coltivato, «come un medesimo sentire e con la stessa carità».

05/11/2024 13.15
Diocesi di Firenze