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Diocesi di Firenze
Chiesa, l'omelia e i saluti del Card. Betori al termine del ministero episcopale a Firenze
Celebrazione nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore
Di seguito il testo dell'omelia proclamata domenica pomeriggio 16 giugno 2024 nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore, dal card. Giuseppe Betori nella celebrazione per il saluto al termine del suo ministero episcopale a Firenze.

Cattedrale di S. Maria del Fiore
16 giugno 2024
XI domenica del t.o. (anno B)
Celebrazione eucaristica per il saluto al termine del ministero episcopale a Firenze
[Ez 17,22-24; Sal 91; 2Cor 5,6-10; Mc 4,26-34]


OMELIA

Pur nel carattere singolare di questa celebrazione, restiamo fedeli al dovere di ancorarci alla parola di Dio che la Chiesa propone nella liturgia.
Il riferimento anzitutto è al testo del profeta Ezechiele, parole rivolte a un popolo disorientato nell’esilio. La promessa che Dio aveva fatto a Davide – «La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a te» (2Sam 7,16) – appariva smentita dalla storia: il regno davidico era scomparso dalla scena dell’Oriente, sotto il dominio babilonese. Alla fede, messa alla prova, risponde la parola del profeta: Dio prepara una novità nella storia, perché un discendente di Davide verrà insediato sul monte Sion, così che tutti i popoli ne riconoscano la sovranità e tutti gli uomini sappiano che il Signore è il vero Dio. A questo progetto di Dio occorre dare fiducia, anche se esso apparirà nella forma fragile di «un ramoscello», che però, piantato sul monte Sion, crescerà e diventerà «un cedro magnifico» (Ez 17,22.23).
Simile è la situazione che, nel vangelo di Marco, si ripropone per Gesù: troppo umile egli appare, e la gente fatica a riconoscere in lui e nella sua missione la presenza del Salvatore. All’attesa di un Messia che avrebbe dovuto rivoltare il mondo, aprire un tempo senza ingiustizie e sofferenze, porre sotto il suo controllo tutti i poteri, Gesù risponde rinviando al potere racchiuso nel piccolo seme che egli sta piantando nel mondo, la presenza di un Dio che nella fragilità apre la storia alla sua pienezza. Di lì a poco questo potere si mostrerà su una croce, preludio di risurrezione. In questa debolezza, come nelle nostre debolezze, quando sono partecipazione al sacrificio della croce, è nascosto il mistero del Regno che viene. Questo è anche il mistero della Chiesa, presenza debole nel mondo, pur nei segni di bene che lo Spirito rende possibili.
Questa è la missione della Chiesa: porre i semi del Regno. Questo è il ministero di un vescovo: porre semi, affidando ad un Altro, al Signore che lo ha inviato, la crescita e i frutti. In questa logica, la logica non dei frutti ma del seme, vorrei collocare anche la mia presenza tra voi in questi anni. Anni in cui, alla fragilità che accompagna sempre la vita della Chiesa nel tempo, si sono aggiunte le debolezze della mia persona, di cui oggi sono qui a chiedere perdono: perdono per non essere stato all’altezza della storia di questa città, soprattutto delle vostre attese. So che mi volete bene, come io lo voglio a voi, e che, indulgenti, non mi negherete la vostra comprensione.
Non è questo il luogo e il momento di un bilancio, che peraltro vorrei in ogni caso evitare, non spettando il giudizio a me o ad altri, ma solo a Dio, alla cui misericordia mi consegno. Con voi oggi vorrei invece condividere lo spirito e i riferimenti a cui ho ancorato il mio servizio a questa Chiesa fiorentina. E voglio farlo prendendo spunto da alcuni segni che mi stanno particolarmente a cuore.
Il primo è rappresentato da questa cattedrale, uno spazio grande, si direbbe perfino eccessivo, immenso. Questo spazio, a chi vi si affaccia, presenta una profondità che ne lascia indefinito il limite. La nostra cattedrale, vista dall’esterno, sembra aver voluto non solo attingere il cielo con la sua cupola, ma anche aver voluto colmare ogni spazio, fino a negare una possibile adeguata piazza. Tutto questo si spiega se si considera la chiesa non come uno spazio altro in mezzo al mondo, un luogo ritagliato rispetto alla città, ma come un elemento connaturale a essa, uno spazio in cui dimensione civile e religiosa non si dividono ma si integrano, come dicono le effigi che troviamo sulle pareti delle navate laterali, segni della storia di Firenze: di chi l’ha difesa, di chi l’ha illustrata con l’arte, di chi ne ha edificato lo spirito e la cultura. La cattedrale di Firenze non ha bisogno di una piazza, perché essa stessa si propone come spazio che accoglie la città tutta. Non c’è uno spazio del sacro separato rispetto a un mondo profano, ma uno sguardo di fede che penetra la storia e la vita di tutti con spirito accogliente e di condivisione. Mi ha profondamente colpito e ho cercato di far mio fino in fondo questo essere Chiesa immersa nella città, pronta a entrare nei suoi spazi, in dialogo con tutto ciò che edifica la comunità degli uomini.
Qui faccio mie le parole che Mario Luzi, nel suo Opus florentinum, ha posto in bocca alla nostra cattedrale: «L’anima di Firenze si risveglia – e si riconosce in me, riprende – fierezza dalla mia presenza. […] Vorrei fossimo uniti tutti insieme, figli miei, per essere una roccia – su cui posare il piede – chi arriva – e prendere slancio per il volo. Perché questo ci è chiesto, – figli miei, di crescere – nel tempo: questo ci giustifica. […] Figli miei, voglio essere il luogo – per la crescita degli uomini, – tutti, di ogni provenienza e origine. […] Leggere e ahimè vivere i tempi, non misconoscerli o negarli – è ancora parte del ministero mio sopra la terra. – Che questo sia fatto degnamente – in reciproca profferta – di magistero e perenne apprendistato» (M. Luzi, Opus florentinum, Parte seconda, 7: Fiore della fede, 2000).
A questa intenzione di non separare mai la Chiesa dalla città si collega anche il secondo segno che mi ha ispirato in questi anni. In questa cattedrale, nelle celebrazioni più solenni, si entra guidati da uno stendardo, la grande bandiera che esalta la croce di colore rosso su campo bianco. È sì il vessillo del Risorto, come ce l’ha consegnato la storia dell’arte, ma è anche, per noi, l’insegna del popolo. Mi ha sempre commosso e chiamato a responsabilità percorrere passi segnati insieme da Cristo e dal popolo, rafforzando in me la convinzione che le strade di Dio non sono diverse dalle strade degli uomini, quando questi percorrono le strade sicure che li edificano nella verità.
In questi anni non ho cercato di proporre una mia strada, ma ho cercato di cogliere le strade di Dio nel cammino del popolo. Questa è la linea tracciata dal nostro stendardo: stare in mezzo al popolo, non staccarsi mai da esso, anche a costo di qualche rallentamento, ma curando di tenere salda la trama del tessuto ecclesiale, evitando strappi in avanti, che possono suscitare qualche plauso ma che inesorabilmente generano anche ferite. Ho sentito come mio compito di pastore tenere insieme il popolo di Dio, nelle inevitabili tensioni, cercando di evitare rotture; indicare la strada al gregge senza perdere qualcuno per troppa fretta e al tempo stesso preoccuparsi di non perderne altri per inerzia, senza però frenare il cammino di tutti, nella convinzione che nella fede del popolo, il santo popolo di Dio, risplende la verità del Risorto.
E giungo al terzo segno, in cui sento racchiuso un altro aspetto significativo del ministero episcopale, così come ho cercato di viverlo tra voi. È questa cattedra, la sede da cui il vescovo spezza il pane della Parola per il suo popolo, il gesto che per me racchiude il senso più profondo del ministero di un pastore. Spezzare la Parola, perché non ci sono verità da scoprire, bensì solo da ascoltare: tutto è già detto nel Vangelo di Gesù. A un pastore è chiesto solo di connettere questo tutto con la mutevolezza del presente, ponendo la parola di Dio come una luce che giudica e salva, che svela le vicende del mondo nella loro verità e indica a tutti l’orizzonte del superamento delle povertà umane. Di nuovo si ripropone, anche in questa prospettiva, l’unità tra Dio e l’uomo, tra verità e storia, tra Cristo e il popolo.
È accogliente questa cattedra episcopale: ti fa sentire abbracciato dallo scorrere della tradizione della fede nel tempo. Al tempo stesso, però, è uno spazio esigente, proprio perché chiede di non umiliare la grandezza della tradizione. È una sede scomoda, in quanto impone di essere fedeli alla verità e quindi pronti a parlare con parresìa, senza indulgere alla tentazione di essere approvati a ogni costo, senza scansare l’incomprensione e anche il rifiuto. È una sede impegnativa, perché vuole che la verità sia annunciata con attenzione ai destinatari, cioè con amore, e l’amore non basta mai. Confesso che non è stato facile tenere insieme tutto questo.
Ma c’è un altro elemento che mi ha sempre attratto in questa cattedra: la sua forma. Questa sede ci viene da lontano, dal XV secolo, legata alla memoria di Sant’Antonino Pierozzi. Mi incanta il suo slancio contenuto, la dolce curva che mi accoglie, senza bisogno di alcun fregio per esprimere bellezza pura, nella semplicità di una materia, il legno, che è materia viva, che respira e si plasma in rapporto all’ambiente; una sede che non affida alla ricchezza o agli orpelli ma al semplice proporsi la forza di esprimere il suo significato. Vi riconosco un’espressione tipica dell’arte fiorentina, che è sintesi tra cultura della bellezza e sobrietà delle forme, in un paradigma di luminosa armonia. Un’armonia che non è frutto di livellamento e omologazione, ma esito di composizione di tensioni, anche profonde, come quelle che reggono la nostra cupola. Per dire questa natura semplice, lineare, del bello, e quindi del vero, non ci sono parole più appropriate di quelle, ben note, con cui Giorgio La Pira definiva il volto di questa città: «La mia dolce misurata e armoniosa Firenze, creata insieme dall’uomo e da Dio» (Discorso al Comitato Internazionale della Croce Rossa, Ginevra 12 aprile 1954), riassumendone così l’identità: «Firenze ha una sua propria universale missione nel sistema della civiltà cristiana ed umana: essa inserisce, infatti, nel dinamismo così attivo del mondo moderno un elemento equilibratore di riposo, di bellezza, di contemplazione, di pace» (Lettera a Indro Montanelli, 15 febbraio 1953). Quel che in questi anni ho cercato di indicare, non sempre riuscendoci, mi sembra che lo dica da sé questa sede: misura, equilibrio, armonia, riposo, bellezza, contemplazione e pace sono l’identità profonda, oltre le fattezze immediate, istintive, anche polemiche e aggressive, di questa città e quindi della Chiesa fiorentina, sintesi di tensioni composte.
Qui mi fermo, non volendo annullare nel moltiplicare i riferimenti la forza dei segni a cui ho fatto ricorso.
Devo però dirvi un altro sentimento che è cresciuto in me in questi anni. Mi sono sentito, giorno dopo giorno, dentro alla storia dei pastori che hanno portato splendore alla storia della Chiesa fiorentina, la cui esemplarità mi ha intimorito ma anche sostenuto: da Zanobi, maestro nell’annuncio e nella difesa della fede, ad Antonino, ispiratore di unità tra fede e vita e promotore di soccorso ai poveri, a Elia Dalla Costa, testimone di santità austera e protettore coraggioso degli oppressi. Riferimenti alti, esigenti ma anche rassicuranti: si sta dentro una storia che ci porta.
A conclusione voglio lasciarvi alcune parole che siano celebrazione ancora di questo incanto che è la cattedrale dei fiorentini, per quindici anni e qualche mese mia cattedrale, figura del mistero che regge ogni nostro sforzo di dare un senso al tempo, perché mistero di un tempo abitato da Dio; parole non mie, che prendo in prestito a un amico, il poeta Davide Rondoni.
Sono parole che ci conducono alla sorgente stessa del nostro stare qui, che danno forma alla speranza, che sostengono la preghiera per me e per voi: «Qui avviene il gran contrario – dei cieli e della storia – qui cielo viene giù – in Maria del Fiore – precipita lui, cielo – giù dal cielo per amore – qui la cupola è lei […] – la cupola è il suo ventre […] – incinta, lievitato – […] cielo, il suo segreto – s’è incarnato… […] ?– Vieni cielo di Firenze – con tutti i cieli dentro – […] nelle nostre più segrete solitudini – nelle gioie e nelle moltitudini – di pene, nel silenzio, nel rumore – vieni in ogni big-bang del nostro amore – ogni sospiro del nostro dolore – non lasciarci in pace, cielo – azzurro, cielo brace – […] visita le nostre stanze cielo dei cieli – di Firenze – supplicato, inaspettato – vieni cielo, cielo vieni, vieni sempre!» (Davide Rondoni, Con cielo dentro, 2022).
Vieni Signore Gesù! Vieni nella nostra Chiesa! Vieni tra le strade e le case di questa città, che un tempo ti riconobbe suo re! Vieni al nostro mondo, abita le sue gioie e le sue ferite. Vieni Signore Gesù!

Giuseppe card. Betori





















SALUTO FINALE

Non posso concludere questa celebrazione senza dare voce alla gratitudine che colma oggi il mio cuore.
Devo confessare che in tutti questi anni mi ha accompagnato sempre la certezza di stare dentro un vincolo di unità con tutti voi, un vincolo nutrito dal legame di fede, speranza e carità, ma anche da una corrente di affetto che non è mai mancato, anche se espresso nella sobrietà che deve caratterizzarlo quando è vero. E vero lo è, e continuerà a esserlo da parte mia, mentre vi chiedo d’ora in poi di riversarlo su don Gherardo, che il Papa ha chiamato a succedermi come vostro pastore nei prossimi anni. La mia obbedienza e la mia preghiera, accompagnate da fraterno affetto, non gli mancheranno.
Ho sentito come un onere glorioso essere posto a dare continuità a una storia luminosa come quella della Chiesa e della città di Firenze. Ne sarei rimasto schiacciato dal peso se non avessi avuto l’aiuto di molti, dei miei più stretti collaboratori anzitutto, in primo luogo i segretari e i vicari che si sono succeduti in questi anni, ma non meno quanti hanno operato in questi anni con me nei compiti loro affidati, a cominciare dai servizi più nascosti, nella Curia diocesana e negli altri organismi della nostra Chiesa.
Accoglienza e sostegno, pronto e generoso, ho avuto poi dai miei preti, uomini di Dio tra gli uomini, pronti a spendere la loro vita in tempi non facili da interpretare – d’ora in poi non più miei e non più figli, nondimeno sempre fratelli –; dai nostri diaconi, che promuovono una Chiesa sollecita nel servizio; da religiosi e religiose di incisiva testimonianza evangelica; da tanti laici e laiche che generosamente si spendono a vivere la fede negli ambiti della vita sociale e nella cooperazione alla vita ecclesiale; da tutto il popolo di Dio. Il mio cuore è colmo di gratitudine per ciascuno. Vorrei e dovrei chiamarvi ciascuno per nome, ma permettete che lo faccia, in rappresentanza di tutti, per due sacerdoti del nostro presbiterio: il cardinale Ernest Simoni, canonico di questa cattedrale, martire invitto della fede e apostolo della lotta vittoriosa contro il Maligno che affligge la vita della gente; don Damiano Danti, cappellano di questa cattedrale, testimone dell’affidamento gioioso al Signore nella dura sofferenza della malattia. So che la loro preghiera continuerà ad accompagnarmi.
Sono poi doverosamente e profondamente grato per quanti nella nostra città, negli altri comuni del territorio, e nella Toscana ricoprono ruoli di responsabilità nella cosa pubblica: in tutti loro, in questi anni, ho potuto trovare sempre accoglienza per collaborare nella promozione del bene comune.
La gratitudine è ovviamente profonda verso i Papi che hanno riposto fiducia in me e hanno orientato la mia vita: san Paolo VI, al cui magistero ha attinto il mio sacerdozio giovanile e che Firenze ama profondamente per il gesto di vicinanza che fu la sua Messa nella notte di Natale del 1966; san Giovanni Paolo II, che ho avuto la gioia di servire in varie circostanze, in particolare nella GMG del 2000, e che mi ha chiamato al servizio dei vescovi nella CEI nominandomi vescovo; Benedetto XVI a cui sono grato per la fiducia che mi ha mostrato affidandomi l’arcidiocesi di Firenze e creandomi cardinale; Francesco, che ha mostrato la sua attenzione a Firenze e alla sua storia in questa cattedrale nonché a Barbiana, nel percorso di riconoscimento dell’ecclesialità dell’azione di don Lorenzo Milani.
Non minore gratitudine debbo ai cari fratelli vescovi delle Chiese della Toscana per la fraternità che mi hanno da subito assicurata e per la condivisione del cammino pastorale.
Di tanti gesti di amicizia mi ha onorato il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I; gli sono particolarmente grato per la fraternità che ci ha unito nel porre segni di comunione nella Chiesa. Gratitudine vada a tutti i pastori e responsabili delle Chiese e comunità cristiane di questa città, con cui ho avuto il dono di compiere un tratto significativo di cammino ecumenico. Stima e fraterna collaborazione ho sperimentato con i capi delle comunità di altre religioni, primi fra tutti, per la comunità ebraica, rav Joseph Levi e ora rav Gadi Piperno e, per la comunità islamica, l’imam Izzedin Elzir; grazie a loro abbiamo potuto mostrare insieme come il dialogo tra le religioni sia fonte di riconciliazione e di pace nel mondo.
Permettete che aggiunga anche il ringraziamento ad amici che non appartengono alla comunità fiorentina, ai miei amici di Foligno e a quelli del mondo romano della CEI, che non hanno smesso di volermi bene e di aiutarmi anche nel mio servizio a Firenze.
Grazie di cuore alla mia famiglia, che mi ha accompagnato con discrezione, affetto e concretezza.
Avendo voluto dare a questi ringraziamenti volti concreti di persone e funzioni ho certamente dimenticato qualcuno, come spesso accade in queste circostanze; mi perdonerete e nessuno si senta lontano dal mio cuore.
Tutti questi ringraziamenti si riassumono nel grazie al Signore, che vi ha messo accanto a me e soprattutto ha sostenuto il mio cammino con la sua grazia e la sua misericordia. A lui mi affido perché so che è fedele e continuerà ad amarmi, così come sono. Grazie Signore Gesù.

Giuseppe card. Betori

17/06/2024 17.29
Diocesi di Firenze


 
 


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