Diocesi di Firenze
Diocesi di Firenze, le notizie dal 24 giugno al 15 luglio 2024
Tutti i comunicati dall'ordinazione del nuovo arcivescovo Gherardo Gambelli
24 giugno 2024
Informazioni di carattere generale
Il 24 giugno, solennità di San Giovanni Battista, patrono della città di Firenze, don Gherardo Gambelli riceverà l’ordinazione episcopale, si insedierà sulla cattedra e prenderà possesso dell'Arcidiocesi di Firenze.
Il vescovo ordinante principale sarà il card. Giuseppe Betori, Amministratore Apostolico dell’Arcidiocesi Metropolitana di Firenze; con lui, co-consacranti nell’ordinazione saranno il card. Gualtiero Bassetti, già presidente della CEI e arcivescovo emerito della diocesi di Perugia-Città della Pieve; mons. Paolo Bizzeti, Vicario apostolico dell’Anatolia, in Turchia; mons. Giovanni Roncari, vescovo di Grosseto e di Pitigliano-Sovana-Orbetello; mons. Dominique Tinoudji, vescovo di Pala, in Ciad.
Concelebreranno altri 25 cardinali e vescovi (card. Loiudice e altri 14 vescovi della CET, mons. Claudio Maniago, arcivescovo di Catanzaro - Squillace, mons. Andrea Bellandi, arcivescovo di Salerno - Campagna – Acerno, mons. Ivan Maffeis arcivescovo della diocesi di Perugia - Città della Pieve, 4 vescovi del Ciad, mons. Joseph Pandarasseril, vescovo ausiliare di Kottayam, in Kerala (India) di rito syro malabarese). Partecipa come assistente alla celebrazione il card. Ernest Simoni. E’ presente il Metropolita Polykarpos, Arcivescovo ortodosso d’Italia ed Esarca dell’Europa Meridionale, residente a Venezia, in rappresentanza di sua santità il Patriarca Bartolomeo I.
Passiamo a descrivere i momenti più importanti della ricca e significativa liturgia del rito di ordinazione: l’esibizione e la lettura del mandato del Papa, ovvero della Bolla di nomina, al clero e ai fedeli; la volontà dell’ordinando espressa davanti a tutti i vescovi e ai fedeli di esercitare il ministero secondo l’intenzione di Cristo e della Chiesa, in comunione con il collegio episcopale, con a capo il Papa, successore di Pietro; l’imposizione delle mani del consacrante principale e dei vescovi presenti sul capo di don Gambelli e la preghiera di ordinazione attraverso cui verrà conferito l’episcopato, momento in cui don Gambelli avrà sopra il capo il libro dei Vangeli aperto, sostenuto da due diaconi, ad indicare che il suo ministero è all’insegna della Parola di salvezza.
Al termine della Preghiera di Ordinazione don Gherardo Gambelli sarà vescovo.
Seguiranno i riti esplicativi ovvero l’unzione con il Sacro Crisma sul capo del nuovo vescovo per significare la sua particolare partecipazione al sacerdozio di Cristo; la consegna del libro dei Vangeli, come mandato ad annunciare sempre la Parola del Signore; la consegna dell’anello, simbolo sponsale della fedeltà del nuovo Pastore alla sua Chiesa; l’imposizione della mitra che richiama l’impegno alla santità e la consegna del pastorale che evidenzia il ruolo di capo nel governare la Chiesa particolare di Firenze
A questo punto l’Arcivescovo Gherardo sarà invitato a sedere sulla cattedra episcopale che rappresenta la sede dell’insegnamento del vangelo di Cristo, con la parola, la vita e la testimonianza. Infine con l’abbraccio di pace che l’ordinato vescovo Gherardo riceverà da tutti i vescovi presenti porrà il sigillo al suo pieno inserimento nel Collegio dei vescovi. Dopo i vescovi una rappresentanza della comunità diocesana scambierà con il vescovo un saluto di accoglienza.
415 saranno i sacerdoti (diocesani, religiosi ed extra diocesani) che concelebreranno la Santa Messa; 44 invece i diaconi permanenti che saranno presenti.
Il servizio liturgico sarà garantito dai seminaristi del Seminario Arcivescovile fiorentino, insieme alla sezione missionaria di Scandicci, e ai seminaristi di altre diocesi toscane.
L’animazione liturgico-musicale sarà curata, invece, dalla Cappella della Cattedrale e dai cori delle parrocchie della diocesi, diretti dal maestro Michele Manganelli.
Per volontà di mons. Gambelli, le offerte raccolte durante la celebrazione saranno devolute per la realizzazione di una sala per la pastorale giovanile presso il Vicariato apostolico di Mongo, in Ciad.
Il prossimo 29 giugno il vescovo Gambelli parteciperà alla celebrazione eucaristica presso la basilica di San Pietro, presieduta da Papa Francesco, in cui verranno benedetti i palli, particolare insegna liturgica simbolo di un legame speciale di ogni Arcivescovo Metropolita con il successore di Pietro. Appena possibile, il Nunzio apostolico a nome del Papa, presiederà una celebrazione nella nostra Cattedrale in cui imporrà il Pallio al vescovo Gambelli.
Cardinali e vescovi presenti all'ordinazione
Il 24 giugno, solennità di San Giovanni Battista, patrono della città di Firenze, don Gherardo Gambelli riceverà l’ordinazione episcopale, si insedierà sulla cattedra e prenderà possesso dell'Arcidiocesi di Firenze.
Il vescovo ordinante principale sarà il card. Giuseppe Betori, Amministratore Apostolico dell’Arcidiocesi Metropolitana di Firenze; con lui, co-consacranti nell’ordinazione saranno il card. Gualtiero Bassetti, già presidente della CEI e arcivescovo emerito della diocesi di Perugia-Città della Pieve; mons. Paolo Bizzeti, Vicario apostolico dell’Anatolia, in Turchia; mons. Giovanni Roncari, vescovo di Grosseto e di Pitigliano-Sovana-Orbetello; mons. Dominique Tinoudji, vescovo di Pala, in Ciad.
Concelebreranno altri 25 cardinali e vescovi (card. Loiudice e altri 14 vescovi della CET, mons. Claudio Maniago, arcivescovo di Catanzaro - Squillace, mons. Andrea Bellandi, arcivescovo di Salerno - Campagna – Acerno, mons. Ivan Maffeis arcivescovo della diocesi di Perugia - Città della Pieve, 4 vescovi del Ciad, mons. Joseph Pandarasseril, vescovo ausiliare di Kottayam, in Kerala (India) di rito syro malabarese).
Partecipa come assistente alla celebrazione il card. Ernest Simoni. E’ presente il Metropolita Polykarpos, Arcivescovo ortodosso d’Italia ed Esarca dell’Europa Meridionale, residente a Venezia, in rappresentanza di sua santità il Patriarca Bartolomeo I.
Vescovi CET
Presenti tutti i vescovi della Cet tranne mons. Simone Giusti (Livorno) e mons. Giovanni Paccosi (San Miniato).
Vescovi emeriti CET
Mons. Franco Agostinelli (Prato), mons. Roberto Filippini (Pescia), mons. Riccardo Fontana (Arezzo-Cortona-Sansepolcro), mons. Mario Meini (Fiesole)
Vescovi dal Ciad
Mons. Dominique Tinoudji (Pala), mons. Goetbé Edmond Djitangar (N'Djamena), mons. Martin Waingue Bani (Doba), mons. Samuel Mbairabe Tibingar (Koumra)
415 saranno i sacerdoti (diocesani, religiosi ed extra diocesani) che concelebreranno la Santa Messa; 44 invece i diaconi permanenti che saranno presenti.
Associazioni
Una rappresentanza di associazioni di persone disabili e ammalati: Associazione Cinque Pani e Due Pesci, Associazione Volontari Gruppo Elba, Comunità di Sant'Egidio, Piccola Casa Divina Provvidenza, Fondazione Opera Diocesana Assistenza, Fondazione San Sebastiano, Istituto Don Orione, Ente Nazionale sordi. La messa è tradotta nella lingua dei segni. A coordinare tutte le associazioni in Cattedrale sono stati i volontari dell'Unitalsi.
In Cattedrale anche una rappresentanza di detenuti di Sollicciano.
I segni che esprimono il servizio episcopale
Pastorale
Il pastorale è in legno di ebano, sulla sommità, nel ricciolo è inserito un virgulto di olivo in argento con al centro una croce ispirata all'aureola del Cristo Giudice del mosaico del Battistero. Al centro della croce sono incastonate due pietre dure blu di Sodalite. Il legno e la pietra, caratteristici dell'Africa, rimandano alla missione in Ciad dell'Arcivescovo. Le parti in argento sono state studiate e realizzate dalla Scuola di Arte Sacra di Firenze. Il pastorale è un dono del card. Giuseppe Betori.
Anello
L'anello vescovile in argento rappresenta un libro aperto, il Vangelo e sulle due pagine è rappresentata l'Annunciazione, l'immagine incisa si ispira all'affresco della Basilica della Santissima Annunziata, con la figura dell'arcangelo Gabriele e la Vergine Maria. Richiami alla Parola incarnata e al cuore mariano di Firenze. Il gambo dell’anello invece è lavorato come una grata, e riprende il disegno dello stemma vescovile che simboleggia sia il ministero svolto come cappellano in carcere, che la città di Castelfiorentino, in riferimento alla patrona Santa Verdiana. Sul gambo è inciso anche il motto scelto dall'Arcivescovo “Omnia cooperantur in bonum”. L'anello, realizzato da Penko Bottega Orafa Artigiana è un dono della diocesi.
Croce pettorale
La croce pettorale è stata realizzata nell'ambito del progetto "Croce della speranza" promosso dall'Ufficio Ispettorato Generale dei Cappellani delle carceri, con il supporto dell'Accademia Internazionale Arti e Restauro. I laboratori per la realizzazione delle croci pettorali, che vengono consegnate ai vescovi impegnati nella pastorale penitenziaria, sono stati installati nel carcere minorile di Casal del Marmo e nel Nuovo Complesso di Roma Rebibbia in cui sono occupati diversi detenuti.
Mitria
La mitria è arricchita da decorazioni ispirate alle tarsie marmoree della Cattedrale di Santa Maria del Fiore ed è stata realizzata dalle monache del Monastero di Santa Maria a Rosano. La mitria è un dono dei sacerdoti.
Casula
La casula è arricchita da decorazioni ispirate alle tarsie marmoree della Cattedrale ed è stata realizzata dalle monache del Monastero di Santa Maria a Rosano. La casula è un dono dell'Opera di Santa Maria del Fiore.
Dalmatica
La dalmatica, la veste liturgica propria del diacono è stata realizzata dalle monache del Monastero di Santa Maria a Rosano ed è stata donata all'Arcivescovo dai diaconi fiorentini.
Il saluto del nuovo Arcivescovo alle Autorità
"Signor Sindaco di Firenze, Signor Presidente della Regione Toscana, Eccellenza signor Prefetto, autorità civili e militari, Signori Sindaci dei comuni presenti nel territorio dell’Arcidiocesi di Firenze.
In questo giorno di festa per la nostra città di Firenze che segna per me l’inizio del mio ministero come Vescovo, desidero rivolgere alle autorità e alle istituzioni presenti sul territorio dell’Arcidiocesi il mio più caro saluto.
Il luogo scelto per questo nostro primo incontro ufficiale ha un valore altamente simbolico. Nel Codice Rustici, un manoscritto antico, conservato nella Biblioteca del Seminario Arcivescovile, il racconto di viaggio a Gerusalemme di un orafo fiorentino, Marco Rustici, è illustrato con una serie di immagini suggestive che ci offrono uno sguardo sulla Firenze del Quattrocento, nel pieno fiorire della cultura dell’Umanesimo e del Rinascimento. Quella relativa all’Oratorio del Bigallo ci presenta le Confraternite caritatevoli della Misericordia e del Bigallo che si erano unite nel 1425 e si occupavano dei piccoli smarriti o abbandonati. I quattro protagonisti delle scene di misericordia sono gli unici personaggi della Firenze del tempo raffigurati da Rustici a sottolineare l’importanza delle pratiche caritatevoli. Colpisce in particolare l’immagine di una donna incaricata di accogliere un bambino nei locali messi a disposizione, che si mette in ginocchio e lo abbraccia con un visibile sorriso. Ieri come oggi, in tempi difficili come quello che stiamo vivendo, di cambiamento d’epoca, non basta fare il bene, bisogna fare bene il bene.
Nel ringraziare di cuore tutte le autorità e le istituzioni presenti sul territorio per il loro impegno a servizio del bene comune, desidero rivolgere a tutti e a tutte, particolarmente a quanti stanno per iniziare a svolgere un nuovo incarico, i miei più sinceri auguri di buon lavoro. Per quel che mi riguarda esprimo qui, ancora una volta, la mia ferma volontà di collaborare con tutte le persone di buona volontà nell’impegno per la costruzione di una società sempre più giusta e fraterna.
Le opere artistiche della nostra città, come il Codice Rustici, ci ricordano che solo quanto è stato compiuto con gioia nel rispetto e nell’attenzione ai poveri, agli emarginati e agli esclusi rimane ed è degno di essere ricordato. Che ognuno di noi sappia trarre dal proprio bagaglio spirituale e culturale le risorse migliori per fare in modo che la bellezza di Firenze risplenda non solo nei suoi monumenti, ma anche e soprattutto nei suoi cittadini, e da qui diffondersi, come germoglio di giustizia e di pace nel mondo".
L'omelia in cattedrale del Card. Giuseppe Betori
Cattedrale di Santa Maria del Fiore
Solennità della Natività di San Giovanni Battista, patrono di Firenze
Ordinazione episcopale e immissione in possesso dell’arcivescovo Gherardo Gambelli
24 giugno 2024
(Is 49,1-6; Sal 138; At 13,22-26; Lc 1,57-66.80)
OMELIA
Che l’ordinazione episcopale del nuovo arcivescovo di Firenze avvenga nel giorno in cui la città celebra la solennità della Natività di San Giovanni Battista suo patrono, è un invito a guardare al ministero del vescovo alla luce della figura del Precursore del Signore. È un riferimento alto, caro don Gherardo, ma che non deve intimorirti, piuttosto deve far sentire la tua vita inserita nel mistero del disegno d’amore in cui Dio coinvolge la nostra umanità.
Punto di partenza della nostra riflessione non può che essere l’evento stesso della nascita del Battista, titolo di questo giorno di festa. Una nascita, quella del Battista, il cui significato si concentra nel nome che l’angelo ha affidato al padre e che questi difende con decisione. «Lo chiamerai Giovanni» (Lc 1,13), aveva detto l’angelo a Zaccaria, e questi quindi, di fronte alla sollecitazione dei più – oggi lo chiameremmo opinione pubblica, pensiero dominante – afferma con decisione: «Giovanni è il suo nome» (Lc 1,63); Giovanni, jehô?anan, “il Signore si mostra benevolo, fa grazia, usa misericordia”. Alla radice dell’esistenza del Battista c’è un gesto di favore, di sollecitudine, di Dio verso i suoi genitori, liberati dalla sterilità, e poi verso l’umanità, a cui il nuovo nato dovrà annunziare la venuta del Messia. L’esistenza di Giovanni è grazia, e grazia è il ministero che, attraverso la Chiesa, il Signore ti affida, caro don Gherardo. Non temere, perché ciò che accade tra poco per te è dentro un disegno divino che ti ha scelto per farti strumento di grazia e di misericordia per il popolo fiorentino. Collocare la tua persona e il tuo ministero a favore di questo popolo dentro un orizzonte di grazia e di misericordia, ti libera dai timori che nascono di fronte alla consapevolezza dei limiti della nostra natura umana, dall’ansia della prestazione e dei risultati, dal dover fare i conti con il giudizio degli altri. Tutto è grazia in quel che oggi accade e in ogni momento del tuo servizio alla Chiesa e alla gente di Firenze. La sorgente divina di questa grazia è inesauribile e ti permette di avviarti nel tuo ministero con fiducia.
Conosciamo poi come Giovanni ha dato forma alla sua missione. Anzitutto nel condurre a Cristo sé stesso e quanti accorrevano alla sua predicazione. Egli è il Precursore, «voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore» (Lc 3,1; cfr. Is 40,3). Anche in questo, caro don Gherardo, il Battista ti sia di esempio. Ogni servizio nella Chiesa, il ministero del vescovo in particolare, ha come unica finalità preparare l’incontro degli uomini e delle donne con Cristo.
La Chiesa, come ha ricordato il Concilio Vaticano II, «è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium, 1), un’affermazione che decentra la Chiesa da sé stessa e, nel contempo, la proietta verso orizzonti teologali e storici senza confini, ma tutto a partire dal suo centro, cioè dal suo capo, Cristo. Tutto in Cristo e quindi tutto verso di lui, che è all’origine e al compimento delle parole e dei gesti di salvezza in cui si esplicita il ministero.
Non hai molto da interrogarti, caro don Gherardo, su quali forme debba assumere il tuo episcopato. Esso ha un solo scopo e una sola forma: annunciare Cristo e condurre a lui quanti ti sono affidati come suo e tuo gregge. Questo nella convinzione della tua rappresentanza di lui, come suggerisce il Pontificale Romano nel Rito dell’Ordinazione del vescovo: «È Cristo infatti che nel ministero del vescovo continua a predicare il Vangelo di salvezza e a santificare i credenti mediante i sacramenti della fede; è Cristo che nella paternità del vescovo accresce di nuove membra il suo corpo che è la Chiesa; è Cristo che nella sapienza e prudenza del vescovo guida il popolo di Dio nel pellegrinaggio terreno fino alla felicità eterna».
Il Battista aiuta anche a comprendere quali fattezze debba assumere questa missione. La preparazione della venuta del Messia nel cuore degli uomini, secondo il Battista, esige una conversione. L’appello al ritorno al disegno di Dio implica a sua volta un giudizio sul mondo e il coraggio della denuncia dell’allontanamento da Colui che ne è l’origine come Creatore, la permanenza nell’essere come Redentore, la meta ultima come Signore della storia. È un ritorno alla verità dell’essere quello che Giovanni chiede ai suoi contemporanei e che testimonia anche con una forma di vita in cui tutto è ricondotto all’essenziale, una povertà scelta come distacco da ciò che può allontanare dalla missione affidata.
Non è difficile rapportare tutto questo al ministero di un vescovo, più volte richiesto di pronunciare un giudizio sul mondo, che non dovrà mai essere di condanna ma di salvezza, in quanto richiamo alla verità contro ogni falsificazione della realtà. La manipolazione del reale è probabilmente il dramma del nostro tempo e, proprio perché si vuole essere in cordiale dialogo con questo tempo, dobbiamo anche essere coraggiosi annunciatori della verità, sempre nella carità, ma sempre anche con parresìa.
Non meno importante è però quella forma essenziale, povera, della forma di vita e di configurazione di Chiesa che solo permette ai discepoli di Gesù di farsi vicini ai poveri, agli emarginati, loro compagni di strada, pronti a condividere e non solo a dare. La tua esperienza di ministero come sacerdote, caro don Gherardo, ti aiuterà senz’altro a porre i presupposti di questa conversione anche per tutta la Chiesa fiorentina; in particolare, aver toccato le periferie geografiche e quelle umane nel tuo impegno missionario in Ciad e in carcere, ti servirà a porre lo sguardo soprattutto su chi viene ignorato o scartato, ad annunciare la buona novella a coloro che appaiono gli ultimi per il mondo, ma sono i primi per il Signore.
I vangeli ci parlano poi della presenza di discepoli accanto a Giovanni, discepoli così legati al loro maestro da far fatica ad accogliere un altro maestro, Gesù, colui verso il quale era protesa tutta l’azione del Battista. Un vescovo, un pastore è tale all’interno di una comunità che – lo ricorda spesso Papa Francesco – deve saper precedere indicando la strada, con cui deve crescere nella condivisione, che deve saper ascoltare lasciandosi anche guidare e sempre attento a non perdere nessuno lungo il cammino. Edificare la comunità è opera difficile, ma, ancora una volta, non è opera nostra, bensì del «Pastore grande delle pecore» (Eb 13,10), Cristo. Il gregge è suo e non nostro; a noi vescovi è chiesto di essere suoi rappresentanti. Orientando tutto a lui poniamo le premesse perché la sua azione, che edifica nella carità, produca frutti di comunione.
Tutto questo un vescovo deve vivere con spirito al tempo stesso di paternità e di fraternità, a cominciare dal legame sacramentale con i suoi preti. Sono certo che saprai farlo, perché non ti mancano la sensibilità e la capacità di ascoltare con il cuore, per rispondere al desiderio di ciascuno di ricevere attenzione, di essere riconosciuto, chiamato per nome.
Non possiamo infine dimenticare che il coraggio della verità ha condotto Giovanni al martirio. È significativo il contesto in cui matura l’uccisione del Battista. Erode ne limitava la libertà e lo teneva in prigione, ma – annota il vangelo di Marco – al tempo stesso «Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri» (Mc 6,20). Non è detto che la persecuzione debba per forza assumere l’aspetto del rifiuto e dell’opposizione; essa si può annidare anche all’interno di un’ambigua tolleranza, di una falsa accoglienza, perfino di una qualche forma di equivoco riconoscimento. Poi però tutto precipita quando entra in gioco la difesa di sé stessi e del potere: «[La figlia di Erodiade] entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: “Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista”. Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle un rifiuto» (Mc 6,25-26).
La voce della Chiesa resterà sempre una voce scomoda per le logiche del mondo e, se anche non ci venga chiesto, come a Giovanni, il sacrificio della vita, resta anche per noi il compito di non lasciarci irretire dalla seduzione del consenso o dall’illusione di un ascolto che non produce conversione o di un plauso interessato fino a quando non entra in gioco la propria posizione nel mondo. Giovanni ci insegna che la missione è fondamentalmente dono di sé, senza limiti, alla verità.
Caro don Gherardo, tra poco, nella preghiera di ordinazione, chiederò a Dio: «Effondi ora sopra questo eletto la potenza che viene da te, o Padre, il tuo Spirito che regge e guida […]. Egli ti serva notte e giorno, per renderti sempre a noi propizio e per offrirti i doni della tua santa Chiesa. […] Per la mansuetudine e la purezza di cuore sia offerta a te gradita». Per la potenza del sacramento, queste sono parole efficaci. A te è chiesto solo disponibilità ad accoglierle. Il Signore farà questo per te e, attraverso di te, per la Chiesa fiorentina. Noi tutti ti accompagniamo con l’affetto e la preghiera.
Giuseppe card. Betori
Amministratore Apostolico dell’Arcidiocesi di Firenze
Il saluto del nuovo Arcivescovo al termine della liturgia di ordinazione
Cari Fratelli e Sorelle,
La Provvidenza del Signore ha voluto che la data della mia ordinazione episcopale e del mio ingresso in diocesi coincidessero con la festa di San Giovanni Battista.
Il Vangelo ci ricorda che Giovanni è più che un profeta, non solo perché vede con i suoi occhi il Messia e lo indica presente nel mondo, ma anche perché si fa precursore di tutti coloro che si lasciano interrogare da Gesù sul senso della vita, lasciando che la risposta a questa domanda, plasmi la loro identità più profonda. Giovanni, il cui nome significa “il Signore fa grazia” continua ad aiutarci a preparare la via del Signore Gesù, accogliendo la logica nuova del Vangelo ben riassunta nelle parole del canto di offertorio della Messa di oggi: “Fa che impariamo Signore da te, che più grande è chi più sa servire, chi s’abbassa e si sa piegare, perché grande è soltanto l’amore”. Un proverbio africano dice che “il vento spezza ciò che non sa piegarsi”. La fede nel Signore morto e risorto per la nostra salvezza nutre la nostra speranza nel suo ritorno glorioso e questo ci rende attenti ai segni dei tempi, per collaborare sempre più docilmente con l’azione dello Spirito Santo.
Al momento della nascita di Giovanni, l’evangelista Luca ci dice che tutti coloro che udivano la notizia si interrogavano in cuor loro: “Che sarà mai questo bambino?”. Potremmo oggi parafrasare: “Che sarà mai questo vescovo?” e anch’io, pur conoscendo la mia Diocesi, mi pongo la domanda: “Che saranno mai i fratelli e le sorelle alle quali il Signore mi invia?”.
Mi viene in mente una bella storia. C'era una volta un uomo seduto ai bordi di un'oasi all'entrata di una città del Medio Oriente. Un giovane si avvicinò e gli domandò: “Non sono mai venuto da queste parti. Come sono gli abitanti di questa città?”. Il vecchio gli rispose con una domanda: “Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?”. “Egoisti e cattivi. Per questo sono stato contento di partire di là”. “Così sono gli abitanti di questa città”, gli rispose il vecchio.
Poco dopo, un altro giovane si avvicinò all'uomo e gli pose la stessa domanda: “Sono appena arrivato in questo paese. Come sono gli abitanti di questa città?”. L'uomo rispose di nuovo con la stessa domanda: “Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?”. “Erano buoni, generosi, ospitali, onesti. Avevo tanti amici e ho fatto molta fatica a lasciarli”. “Anche gli abitanti di questa città sono così”, rispose il vecchio. Un mercante che aveva portato i suoi cammelli all'abbeveraggio aveva udito le conversazioni e quando il secondo giovane si allontanò, si rivolse al vecchio in tono di rimprovero: “Come puoi dare due risposte completamente differenti alla stessa domanda posta da due persone?”. “Figlio mio”, rispose il vecchio, “ciascuno porta il suo universo nel cuore. Chi non ha trovato niente di buono in passato, non troverà niente di buono neanche qui. Al contrario, colui che aveva degli amici nell'altra città troverà anche qui degli amici leali e fedeli. Perché, vedi, le persone sono ciò che noi troviamo in loro”.
Proseguiamo il nostro cammino mettendo sempre più Gesù al centro della nostra vita, così sapremo riconoscerci come fratelli e sorelle e saremo testimoni credibili nel mondo della gioia del suo amore.
L’evangelista Luca ci dice che Elisabetta e Zaccaria, negli ultimi tre mesi precedenti alla nascita di Giovanni, hanno avuto la grazia della visita di Maria. Nel Nuovo Testamento la figura di Maria è spesso presentata come un’immagine della Chiesa. Posso dire con tutta sincerità che questi due mesi di preparazione all’ordinazione episcopale sono stati per me un tempo di grazia in cui ho fatto esperienza della vicinanza di Maria nella mia vita, attraverso la preghiera di tanti fratelli e sorelle che mi hanno sostenuto. Nel ringraziamento per questo aiuto ricevuto attraverso la vicinanza e l’affetto, penso di poter includere tante persone, in particolare i miei genitori, i miei familiari, i membri dalla famiglia di Dio che è la Chiesa soprattutto i confratelli preti, i consacrati e le consacrate, i diaconi, i seminaristi, così come i fratelli e le sorelle di altre confessioni cristiane e di altre religioni.
Ringrazio il Cardinale Giuseppe Betori per la sua generosità e saggezza nel ministero episcopale, particolarmente in questi 16 anni come pastore della nostra diocesi e per la sua delicatezza nell’accompagnarmi ad assumere l’incarico come suo successore. Grazie al Cardinale Bassetti che mi ha accolto in seminario nel 1989, al Cardinale Antonelli e al Cardinal Simoni per la loro presenza e il loro servizio a Firenze. Ringrazio tutti i Vescovi presenti, particolarmente quelli della Toscana, che mi hanno manifestato fin dall’inizio vicinanza e sostegno fraterno. Un grazie speciale ai Vescovi che vengono da altre regioni, da altre nazioni e soprattutto da altri continenti, in particolare quelli provenienti dall’Asia e dall’Africa. La presenza di quattro Vescovi ciadiani, insieme a Monsignor Henri Coudray, Vicario Apostolico emerito di Mongo, di numerosi preti e di alcuni laici di queste giovani Chiese, mi riempie di gioia e di commozione. Il Cardinal Piovanelli amava dire di aver fatto l’Università come parroco a Castelfiorentino. La mia Università è stata il Ciad; vorrei rivolgere attraverso di voi i mei più vivi ringraziamenti a tante persone della vostra nazione che, forse senza nemmeno saperlo, mi hanno formato, aiutandomi a capire la bellezza e la forza del Vangelo.
Saluto e ringrazio le autorità civili e militari, gli esponenti delle istituzioni, del mondo della politica e della cultura, in particolare i sindaci dei comuni della nostra Arcidiocesi.
Un ringraziamento particolare all’Opera di Santa Maria del Fiore e a tutti quanti si sono adoperati perché questa celebrazione si realizzasse nel migliore dei modi, e così è stato nel rito, nel canto, nell’accoglienza delle persone, nei servizi più vari, senza dimenticare quello svolto dai giornalisti e dagli operatori dei media.
Rivolgo un pensiero a quanti non hanno potuto essere presenti fisicamente alla celebrazione di oggi, ma che sono in comunione di preghiera con noi, in particolare i preti fidei donum della nostra Diocesi, i malati, le monache di clausura. Un saluto pieno di affetto e di amicizia ai detenuti della casa circondariale di Sollicciano, a quelli qui presenti e a quelli che ci seguono attraverso la diretta streaming.
La gratitudine si rivolge infine e soprattutto al Santo Padre, presente tra noi con la sua benedizione. Nel suo discorso pronunciato proprio in questa Cattedrale il 10 novembre 2015, papa Francesco ci aveva lasciato un’immagine che mi piace riprendere: quella della medaglia spezzata a metà che le mamme consegnavano insieme ai neonati allo Spedale degli Innocenti. E ci ricordava: “Noi abbiamo l’altra metà. Perché la Chiesa madre ha in Italia metà della medaglia di tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati”. Quelle parole del papa, così importanti per tutte le diocesi italiane, lo sono in particolare per noi perché ci "riannodano" alla nostra tradizione più profonda e feconda. Parlo di quell'umanesimo che dopo la distruzione morale e materiale provocata dalla dittatura e dalla guerra seppe rifiorire facendo della nostra città un laboratorio di giustizia sociale e di pace fra le nazioni. Come Chiesa fiorentina continueremo ad attingere a quelle radici per alimentare - in dialogo fattivo con tutti - quel nuovo umanesimo cristiano che consiste nel fare nostri i sentimenti di Cristo (Fil 2,4).
Come dice il papa, infatti, "Il nostro dovere è lavorare per rendere questo mondo migliore e lottare. La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il Vangelo di Gesù".
Maria, madre di Gesù e madre nostra aiutaci ad accogliere il tuo Figlio perché la Chiesa diventi una casa per molti, una madre per tutti i popoli e renda possibile la nascita di un mondo nuovo.
J’adresse mes salutations et mes remerciements à tous mes frères et sœurs tchadiens, en particulier à ceux et celles qui sont ici présents : les évêques les prêtres et les laïcs qui ont fait un long voyage pour participer à cette célébration, à tous ceux et celles qui nous suivent à travers les réseaux sociaux ou qui sont en communion de prière avec nous. J’espère pouvoir bientôt vous rendre visite au Tchad et je m’engage comme Archevêque de Florence à poursuivre notre coopération missionnaire pour le bien de nos Eglises. Merci et que Dieu vous bénisse.
26 giugno 2024
L'omelia proclamata il 26 giugno 2024 a Barbiana dall'Arcivescovo di Firenze, mons. Gherardo Gambelli nel 57esimo anniversario della morte di don Lorenzo Milani.
Barbiana, 26 giugno 2024
Ringrazio e saluto il presidente della Fondazione don Milani per avermi invitato a presiedere questa Eucaristia nel giorno in cui facciamo memoria della morte di don Lorenzo Milani. Saluto cordialmente il parroco di Vicchio, i confratelli preti e tutti voi che partecipate a questa celebrazione.
Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, ci ricorda che “fa molto bene fare memoria del bene”. Siamo qui riuniti per questo motivo: fare memoria del bene che don Lorenzo ha compiuto nella sua vita terrena. Il nostro sguardo, tuttavia, non è rivolto solo al passato; piuttosto, il ricordo ci spinge a vivere intensamente il presente con passione e entusiasmo in questo nostro tempo di cambiamento d’epoca. Le letture che abbiamo ascoltato ci illuminano in questo nostro cammino.
La prima lettura tratta dal Secondo libro dei Re ci presenta un episodio che avvenne a Gerusalemme al tempo del re Giosia verso la fine del VII secolo a. C. Questo re santo e giusto aveva iniziato una riforma religiosa che prevedeva anche dei lavori di restauro del Tempio di Gerusalemme. Nel corso di questi lavori viene ritrovato un rotolo con le parole del libro della legge. Gli studiosi della Bibbia ritengono che si tratti della parte centrale del libro del Deuteronomio, i capitoli 12-26, che erano stati persi, o più probabilmente dimenticati dalle autorità religiose e dal popolo. Si tratta di una serie di norme che Mosè aveva trasmesso al popolo, proprio mentre stava per entrare nella terra promessa, alla fine dei quarant’anni trascorsi nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto. Lo scopo principale di questa legge è quella di aiutare il popolo a vivere nella terra con la stessa mentalità del deserto, a ricevere tutto come un dono, che si rinnova ogni giorno proprio come la manna durante il cammino dell’esodo.
Il capitolo 20 del Deuteronomio è un testo di una sorprendente attualità perché parlando dell’eventualità di entrare in guerra, introduce tutta una serie di condizioni da assolvere precedentemente che rendono praticamente quasi impossibile farlo. Cito un passaggio di questo capitolo: “Quando andrai in guerra contro i tuoi nemici […]. Gli scribi diranno al popolo: "C'è qualcuno che abbia costruito una casa nuova e non l'abbia ancora inaugurata? Vada, torni a casa, perché non muoia in battaglia e un altro inauguri la casa. C'è qualcuno che abbia piantato una vigna e non ne abbia ancora goduto il primo frutto? Vada, torni a casa, perché non muoia in battaglia e un altro ne goda il primo frutto. C'è qualcuno che si sia fidanzato con una donna e non l'abbia ancora sposata? Vada, torni a casa, perché non muoia in battaglia e un altro la sposi". Gli scribi aggiungeranno al popolo: "C'è qualcuno che abbia paura e a cui venga meno il coraggio? Vada, torni a casa, perché il coraggio dei suoi fratelli non venga a mancare come il suo". Mi sembra che l’articolo 11 della nostra Costituzione italiana faccia eco a questo capitolo 20 del Deuteronomio: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Chissà? Forse anche noi, come il popolo d’Israele abbiamo perso questo testo? Ci sarà qualcuno capace di ritrovarlo, di suscitare in noi questo sentimento di ripudio della guerra e del male? Ognuno si chieda: “E se cominciassi a farlo io, oggi, proprio là dove vivo?”.
Il Signore Gesù nel testo del vangelo, parlando dei falsi profeti, ci dice che vengono a noi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Il vero profeta si presenta all’opposto come qualcuno che è duro all’esterno, ma tenero interiormente e solo chi ha il coraggio di lasciarsi inquietare nelle false paci della coscienza, può portare frutto nella sua vita. Il profeta è colui cha parla a nome di Dio davanti al popolo, si trova in mezzo a questi due fuochi e ciò spiega perché dovendo vivere questa duplice fedeltà, egli conosca molto spesso la sofferenza, l’incomprensione e la solitudine.
C’è un testo molto bello di Madeleine Delbrel che parla di questa duplice fedeltà facendo ricorso a un’immagine, quella del cane lupo.
“Quando un gregge è piccolo e le pecore sono docili e vi sono pochi lupi o non ve ne sono affatto, il pastore può far a meno del cane. Quando il gregge è grande e le pecore sono vagabonde, non una sola ma a branchi, e i lupi sono numerosi, bisogna che il pastore abbia un cane e magari più di uno. I cani somigliano sempre ai lupi, e spesso i migliori cani da pastore sono proprio i cani lupi. È quel che hanno conservato del lupo che permette loro di fare per il pastore ciò che lui stesso non farebbe: fiutano, corrono, si arrampicano alla maniera degli animali che sono. Ma è quel che il pastore ha comunicato loro di se stesso che fa di essi dei cani da pastore: amare le pecore come un pastore o come un lupo, non è affatto la stessa cosa. È condividendo un po’ la vita del pastore che il cane rimane un cane e non diventa un lupo. Non vive più nei boschi, ma accanto alla casa del pastore. Si nutre del cibo dell’uomo. Ode la voce dell’uomo. È l’uomo che lo chiama senza tregua a sé, è l’uomo che lo manda incessantemente alle frontiere del gregge. I suoi due estremi sono la testa del gregge e i piedi del pastore. Le pecore non possono né ritrovarsi le une le altre, né difendersi. Ma non diventeranno mai lupi. I cani possono ritrovare le pecore e difenderle, ma c’è sempre un lupo nascosto dentro di loro; possono tornare ad esserlo. Ai piedi di San Domenico, in San Pietro a Roma, c’è un cane simbolo della sua missione. L’ovile della Chiesa, in certi periodi, ha bisogno di cani da pastore. In queste ore, il Signore li ha sempre fatti sorgere. Se sono fedeli, li si riconoscerà sempre da due cose: le spine e i morsi sulle zampe, il segno del collare intorno al collo. Come tutti i cani pastori, porteranno la contraddizione di essere al tempo stesso gli amici dell’uomo e gli antichi abitatori della giungla. Come tutti i cani pastori, un giorno o l'altro riceveranno la «correzione» del pastore... perché non possono capire tutto ciò che egli dice. Come tutti i cani da pastore, saranno disprezzati, ai margini del bosco, un giorno, una sera, a causa del collare dell’uomo”.
Mi colpisce sempre nella vita di don Lorenzo la sua fedeltà alla Chiesa, soprattutto per l’assoluta necessità del sacramento della riconciliazione. Il Signore ci aiuti a vivere come lui questo grande amore per la Chiesa attraverso la quale riceviamo la grazia di Cristo, perché innestati in Lui portiamo frutti di vita eterna e collaboriamo alla realizzazione del suo regno di giustizia e di pace.
29 giugno 2024
L'Arcivescovo di Firenze, mons. Gherardo Gambelli ha ricevuto questa mattina il pallio da Papa Francesco durante la celebrazione eucaristica nella Basilica di San Pietro.
Come ormai da tradizione, in occasione della Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, il Papa ha benedetto e consegnato agli Arcivescovi metropoliti nominati nel corso dell’anno i palli che verranno poi imposti ai vescovi nelle rispettive sedi dal Nunzio Apostolico.
Il pallio è un paramento liturgico, una fascia di lana bianca con le croci nere, indossata dal Papa e dagli Arcivescovi metropoliti, che indica il legame speciale tra il Vescovo di Roma e le singole arcidiocesi metropolitane.
Dopo il pranzo insieme, nel pomeriggio, l'Arcivescovo Gambelli andrà nella Basilica Papale di San Paolo fuori le Mura con i fedeli della diocesi di Firenze arrivati in autobus per partecipare alla celebrazione della mattina, per accompagnarlo in questo momento di particolare significato. In Basilica un momento di fraternità e preghiera, festeggiato dai fiorentini per poi rientrare a Firenze.
Queste le parole di mons. Gambelli al termine della celebrazione:
"Oggi è stata per me una grande emozione, è sempre una gioia incontrare il Papa, ma anche tanti arcivescovi e vescovi provenienti da vari paesi del mondo. Nella Basilica di San Pietro si respira l'universalità della Chiesa, il fatto che tutti siamo a servizio di un'unica missione. Quando c'è stato il momento dell'incontro diretto, Papa Francesco ha voluto ancora incoraggiarmi dicendo: "vai avanti, so che sei stato un grande missionario, adesso la tua missione è qui e devi portarla avanti". Queste parole per me sono state di grande conforto e sostegno. Era la seconda volta che incontravo il Papa, avevo avuto modo di fargli solo un breve saluto al termine dell'Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana a cui ho partecipato come vescovo eletto".
4 luglio 2024
Il pensiero dell'Arcivescovo di Firenze, Mons. Gherardo Gambelli dopo la morte di un giovane tunisino a Sollicciano.
"Ho appreso con grande dolore la notizia della morte di un ragazzo di soli 20 anni a Sollicciano. Mentre preghiamo per lui e rivolgiamo un pensiero alla sua famiglia, non possiamo continuare ad accettare che tante persone disperate si tolgano la vita in carcere. Purtroppo queste morti confermano una situazione drammatica e condizioni insostenibili in tanti penitenziari italiani, criticità che da tempo vengono denunciate e che ho verificato personalmente come cappellano. Ancora una volta rivolgiamo un accorato appello a tutti coloro che hanno il potere di fare qualcosa perché in carcere vengano rispettati i diritti umani e la dignità delle persone, perché ai detenuti che scontano una pena non sia tolta la speranza della redenzione". Mons. Gherardo Gambelli, Arcivescovo di Firenze
9 luglio 2024
Messa per i vescovi fiorentini defunti in Santa Maria del Fiore
L'omelia dell'arcivescovo Gherardo Gambelli
L’arcivescovo Gherardo Gambelli ha presieduto martedì 9 luglio, alle 18, nella cattedrale di Santa Maria del Fiore, a Firenze, la Messa di suffragio per gli arcivescovi fiorentini defunti, nel giorno dell’anniversario della morte del cardinale Silvano Piovanelli (9 luglio 2016).
"Pregare Dio per i vivi e per i morti è una delle sette opere di misericordia spirituale, ed è bello farlo tutti insieme oggi in questa celebrazione in cui ricordiamo gli Arcivescovi defunti della nostra Diocesi. Come dice papa Francesco nell’Esortazione Apostolica Amoris Laetitia: “Pregare per i defunti può non solo aiutarli, ma anche rendere efficace la loro intercessione in nostro favore”. La nostra preghiera di suffragio si accompagna dunque alla fiducia che anche loro, in questo momento, pregano per noi e ci sostengono nel cammino della vita, nell’attesa di poter un giorno condividere con tutti i santi la gioia eterna, la vittoria sul male e sulla morte. “Quanto meglio viviamo su questa terra, tanto maggiore felicità potremo condividere con i nostri cari nel cielo. Quanto più riusciremo a maturare e a crescere, tanto più potremo portare cose belle al banchetto celeste”, sono ancora parole del Papa. I testi della Liturgia della Parola che abbiamo ascoltato possono aiutarci a vivere con più coerenza la risposta alla chiamata di Dio, a collaborare con più coraggio alla realizzazione del suo Regno.
Il profeta Osea nella prima lettura denuncia il peccato di idolatria che si nasconde spesso dietro un atteggiamento apparentemente religioso: “Efraim ha moltiplicato gli altari, ma gli altari sono diventati per lui un’occasione di peccato. Offrono sacrifici e ne mangiano le carni”. Lo scopo di questa forte denuncia profetica è proprio quello di smascherare quell’atteggiamento ambiguo di chi vuole servire due padroni (Dio e il denaro) e finisce così per ritrovarsi schiavo dei propri idoli. Il Salmo descrive le conseguenze drammatiche di un tale modo di vivere che conduce colui che lo pratica a degradarsi fino a diventare come l’idolo da lui adorato: “Diventino come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida”. Il cammino di conversione, al quale il Signore ci chiama, comincia proprio dal prendere coscienza del male che noi stessi ci procuriamo allontandoci da Lui sorgente di acqua viva. La parola peccato dal latino pes captum indica questo piede bloccato di cui facciamo esperienza ogni volta che non mettiamo Dio al primo posto. Osea parla a questo proposito di un contro-esodo: “dovranno tornare in Egitto”. È questa la situazione in cui ci troviamo, nella quale il Signore viene a visitarci, mostrandoci il suo amore di padre con un cuore di madre: “Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri Israele? …Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira”. Nella preghiera di stasera possiamo chiedere questa grazia di accogliere più profondamente l’amore del Signore che è sempre asimmetrico, ci accoglie per quello che siamo e ci aiuta così a superare i nostri sensi di colpa.
Il muto indemoniato guarito da Gesù di cui ci parla il Vangelo di oggi è ancora un’immagine dell’uomo idolatra che si è corrotto diventando sterile: “Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano”. Davanti all’azione di liberazione di Gesù, i farisei vogliono spengere lo stupore delle folle dicendo: “Egli scaccia i demoni per opera del principe dei demoni”. Davanti a queste accuse, simili a quelle rivoltegli dagli abitanti di Nazaret di cui ci parlava il vangelo di domenica scorsa: “Non è costui il falegname? Il figlio di Maria?”, Gesù mostra il suo amore più forte del male, proprio mettendosi in cammino, percorrendo città e villaggi, annunciando il vangelo del Regno. Come ci ricorda ancora papa Francesco: “La missione è l’ossigeno della vita cristiana. La tonifica e la purifica”.
C’è una bella testimonianza del Card. Piovanelli citata nel libro “Il parroco Cardinale” a cura di Marcello Mancini e Giovanni Pallanti che ci parla proprio di questa forza risanatrice della missione. «Negli anni dell'immediato post-Concilio e della contestazione studentesca e sociale, anch'io, qualche volta mi sono sentito contestato come parroco: 'Dov'è la comunità?'”. Il nostro è un cristianesimo fatto di tradizioni, i contestatori dicevano che bisognava smantellarlo: 'La parrocchia e senza futuro si può ricominciare solo ripartendo da zero'. Quante volte, dopo essermi rigirato nella mente tutti quegli interrogativi e quei giudizi senza riuscire a prendere sonno, la mattina ho ritrovato fiducia, celebrando con la gente: vedendo uomini e donne, giovani e anziani, attenti alla Parola, gioiosi nel cantare la fede, capace di un silenzio assoluto nei momenti richiesti; e riconoscendo uomini rotti dalla fatica del lavoro, ma fedelissimi all'incontro domenicale, con occhi vivi e gioiosi, nei volti rugosi oscuri, donne fedeli alla loro casa e ai figli, capaci di dirti poche parole, ma piene di fede evangelica (come una donna che aveva gridato la sua fede davanti al cadavere del marito suicida). E c'è poi quello che è malato, ma finché ha forza viene a messa, poi quella che non ha più pace in casa e viene a cercarla in chiesa, chi è lì perché la morte gli ha portato via la persona più cara, chi t'ha chiesto di poter lavorare per gli altri, chi viene a salutare perché sta per partire, chi ti domanda mezz'ora per confidarti il suo problema o l'altro che vuole un po’ di tempo per confessarsi bene. Guardavo questa gente e dicevo: ecco il popolo di Dio!».
Nella parte finale del Vangelo di oggi il Signore ci invita alla preghiera perché davanti alla sproporzione fra i mezzi e il fine: la messe abbondante e i pochi operai, sappiamo sempre riconoscere la presenza di Gesù che ci precede nella missione e dice anche a noi, come a Paolo a Corinto: “Non aver paura, continua a parlare e non tacere… perché in questa città io ho un popolo numeroso” (At 18,10).
Invochiamo l’intercessione di Maria SS.ma perché ci aiuti a avere questo sguardo contemplativo sulle persone che il Signore ci affida, perché dicendo anche noi: “Ecco il popolo di Dio”, possiamo un giorno essere riconosciuti e accolti dal Padre con Gesù: “Questi è il Figlio mio l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”.
15/07/2024 10.57
Diocesi di Firenze